L’arte come emergenza. Lo mostrano non solo le immagini di migranti impacchettati come cioccolatini e ammassati sulle coste liguri di Ventimiglia bloccati alle frontiere del loro diritto di esistere, ma anche molte opere esposte alla Biennale dell’Arte di Venezia 2015 (fino al 22 novembre) “All the world’s future” curata dal nigeriano Okwui Enzewor.
Tutti i futuri possibili quanti sono i popoli ed i paesi che partecipano all’esposizione universale delle arti visive. Quelli che esistono, che vivono fuggendo da persecuzioni o da guerre e quelli che non sono più. Una mostra che guarda al futuro senza dimenticare la storia. E’ lungo l’Arsenale, le Corderie e i Giardini che uomini e donne in fuga, migranti e rifugiati politici o di guerra che chiedono asilo, espongono il dramma della loro storia attraverso la mano di artisti come la vietnamita Tiffany Chung che nei suoi disegni cartografici esamina lo sviluppo urbano in relazione con la memoria storico-culturale, il recupero e la crescita di città colpite dalla guerra o da disastri naturali.
“31 giorni nella capitale della rivoluzione” (2014, Arsenale) è un’opera che attraverso una serie di mappe che illustrano la migrazione di siriani in fuga dalla guerra interna o dai bombardamenti (12 milioni e mezzo di rifugiati o sfollati interni dopo 4 anni e mezzo di conflitto) esplora con inchiostro e olio su pergamena e carta i cambiamenti spaziali e sociopolitici di un popolo oggi stanziato in Libano, Giordania, Irak, Egitto ed Europa rifugiato nei campi dell’Unhcr (Alto Commissariato Onu per i rifugiati).
Sociogeografie che tracciano confini psicologici e civili tracciati da spostamenti di gruppi di persone in cammino verso una terra promessa negata. Un percorso che può giungere fino alla disperazione che diventa dispersione e morte nei viaggi della speranza via mare e Mediterraneo in un forma di esilio continuo. Un memento mori collettivo, come ricorda l’opera sentinella di Pino Pascali in Corderie, Il grande cannone di una guerra continua al quale fanno eco le «ninfee» composte da lunghi coltelli conficcati a terra dell’algerino Abdel Abdessemed che s’incontrano entrando insieme alla scritta al neon Death del veterano Bruce Nauman.
Mostruose e zoomorfiche le macchine belliche di Abu Bakarr Mansaray rappresentano i massacri della Sierra Leone mentre un disegno seriale e narrativo come mezzo comunicativo immediato e universale torna come emergenza in mostra. Manifestazioni, rivoluzioni, momenti neri della dittatura, diari di conflitti, progetti mai realizzati vengono così tratteggiati a carboncino, a china, con la biro o stampati su uno dei tanti nuovi muri come nell’installazione “Urban Requiem” del camerunese Barthélémy Toguo.
Traversate in mare di uomini, donne e bambini, ognuno con la propria storia e con il proprio intimo sogno di continuare a vivere non sono altro che diritti universali negati, parole evocatrici di redenzione come “esilio”, “resistenza”, “cittadinanza” e versi che richiamano al senso più autentico dell’umanità perché “No man is an island” (Nessun uomo è un’isola).
Un’ingiustizia, in qualsiasi luogo sconfinato si verifichi, non può che interessare tutti. Le armi creano schiavitù perché nella paura si insinua la rivendicazione del potere abusivo che rimpiazza la scelta, libera e individuale. Un trono concepito e realizzato con reperti bellici in Mozambico, terra di colonialismo europeo prima e di guerra civile poi , è l’opera di Gonçalo Mabunda che sulla memoria del suo paese ha costruito un altare, simbolo dell’assurdità di un conflitto che ha isolato lo stato africano per anni creando povertà e dittatura.
I linguaggi come patrimonio delle diverse espressioni culturali dell’umanità è il tema centrale su cui ruota il microcosmo di suoni e lingue indigene del continente Latino Americano che l’IILA (Istituto Italo Latino Americano) mette in luce in un Padiglione nel quale gli idiomi autoctoni di comunità locali e gruppi etnici sono voci e suoni che rischiano l’estinzione come la diversità culturale, una ricchezza che imprescindibile per un’avvenire migliore per la collettività.
Una memoria che ci appartiene perché apparteniamo, come i 60 milioni di profughi e rifugiati che necessitano di acqua e di protezione. Di una casa che diventa una tenda o un rifugio di fortuna. Migranti a bordo di barconi il cui legno non più marcio arrivato fino a Lampedusa è diventato quest’anno, in occasione della giornata mondiale del rifugiato (20 giugno) una chitarra che suona tutte le lingue del mondo, opera del liutanio Giulio Carlo Vecchini e simbolo del World Refugee Day 2015.
Un’opera dal titolo “Mare di Mezzo” che sarà sul palco a suonare con la Bandabardò, Piero Pelù e molti altri in un concerto all’Ippodromo del Visarno di Firenze organizzato dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) per garantire riserve d’acqua potabile e kit di sopravvivenza ricordando le vittime del Mediterraneo.