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Amy Winehouse, Kurt Cobain e il difetto della memoria

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Se c’è un modo per impedire alla gente di morire non è quello che Amy Jade Winehouse ha fatto con se stessa, consumando la sua vita in un lungo, premeditato suicidio, giorno dopo giorno e anno dopo anno, senza che fosse mai possibile fermarla, o separarla dalla cancellazione della propria esistenza che lei ha sempre cocciutamente cercato nell’alcool e nella droga.

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Se n’è andata via a 27 anni, che dev’essere un’età maledetta, la stessa che s’è presa pure Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, che l’elettricista Gary Smith trovò riverso vicino al garage della sua casa sul lago Washington, una mattina di primavera del 1994, con una piccola perdita di sangue sull’orecchio e il fucile a pompa modello Remington calibro 20 appoggiato nella sua mano aperta.

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Kurt Cobain – credit foto Terry McGinnis/WireImage/WireImage

Kurt si era ammazzato così, e aveva lasciato una lunga lettera d’addio («… è meglio ardere in un’unica fiamma, piuttosto che spegnersi lentamente») che il detective Tom Grant scambiò semplicemente per un commiato dal mondo della musica.

Fu l’autopsia a decretarne il suicidio, rivelando che aveva quasi più eroina che sangue nel corpo.

La fine di Amy Winehouse non è tanto diversa, anche lei ritrovata morta nel suo letto alle 15,53 del 23 luglio 2011, al numero 30 di Camden Square, Londra, e anche lei crudelmente spogliata da un’autopsia che certificò la presenza di alcool nelle sue vene, «pur se non in misura tale da causarne il decesso».

Eppure, la comune depressione, che moltissime volte colpisce le persone di talento, come se proprio con il loro genio crescesse, sembra aver cambiato le loro morti, dopo aver reso simili le loro vite.

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Lui è diventato un’icona della musica e della cultura, celebrato dalla rivista Rolling Stone come l’artista più importante degli Anni 90. Lei, invece, è ricordata con una certa pietas, come appare nel suo ultimo concerto a Belgrado, proprio un mese prima di morire, talmente ubriaca da non riuscire neanche a cantare e a muoversi sul palco.

E persino nel film sulla sua vita che sta per uscire nelle sale di tutto il mondo, le riconoscono il ruolo della vittima, fra le accuse reciproche del padre e dell’ex marito, più che quello dell’artista. Non importa che prima di arrivare alla fine del percorso avessero fatto quasi lo stesso cammino.

Kurt Cobain, figlio del meccanico Leland Cobain e della barista Wendy Elizabeth Fradensburg, di Seattle, patì così tanto il divorzio dei suoi genitori da vergare addirittura sulle pareti del proprio bagno la sua disperazione:

«Odio mia madre, odio mio padre, mio padre odia mia madre, mia madre odia mio padre. E’ semplice, vogliono che io sia triste».

E’ la stessa rabbia che prova Amy Winehouse quando il padre tassista e la mamma farmacista di Enfield, Middlesex, periferia di Londra, si separano perché lui se ne va di casa.

Nel film, l’ex marito di Amy, Blake Fielder Civil, uno che tenterà quasi il suicidio per i sensi di colpa dopo la sua morte («ho portato mia moglie per una strada che non avrebbe mai dovuto percorrere»), accusa il padre di lei di aver contribuito con la sua assenza a dare il via alla spirale di morte che poi ha spinto la madre del soul bianco verso la tragica fine dei suoi giorni.Amy-Winehouse-e-Blake-Fielder-Civil

Certo è che da adolescente, Amy è una ribelle insofferente non solo alla ferrea disciplina dello Young Theatre School che vietava alle sue alunne persino di indossare i gioielli, ma anche alle regole più normali. E’ un Gianburrasca che si picchia con i maschi, ma che ha sviluppato in misura incredibile il talento della musica: a 10 anni ha già fondato un gruppo rap, e a 13 le hanno regalato la prima chitarra che lei accorda con grande maestria.

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Come Kurt, che da bambino si diverte a suonare: è solo lui che non ha fiducia in se stesso, tutti gli altri lo guardano come un talento. Il senso della ribellione già li accomuna, in epoche diverse. E non solo.

A 19 anni, nel 1986, lui viene arrestato per vandalismo. Aveva scritto sui muri:

«Dio è gay». Mickey Rourke, uno dei pochi che comunque non ha mai parlato bene del leader dei Nirvana, nel film The Wrestler fa dire al suo protagonista: «Poi è arrivato quel frocetto di Kurt Colbain e ha rovinato tutto…».

Certo è che in tutta la sua breve vita Kurt ha lottato con tutto se stesso contro il sessismo e il razzismo. In compenso, Amy confessa in una intervista: «Mi piacciono  le pin-up. Mi sento più uomo che donna. Però non sono lesbica, o almeno non prima di una sambuca qualunque».

Poi, nel 2006, prende a pugni in faccia una fan che l’aveva appena criticata per aver preso come marito quel drogato di Blake Fielder Civil. Nel 2009 manda al Pronto Soccorso un fotografo con una testata: bum! Va nella scuola del quartiere e litiga con un bullo che molestava la sua figlioccia, prendendosi a sputi. Per l’aggressione a un uomo viene pure condannata a due anni di carcere, derubricati poi in una multa.

Se Kurt quasi rivendica la sua dipendenza dall’eroina, lei fa uso di crack, come documenta uno scoop del Sun, ma è soprattutto schiava dell’alcol. Nel 2006 si esibisce in stato di palese  ubriachezza durante un concerto e dev’essere pure bevuta molto quando interrompe Bono Vox che ringraziava il pubblico dopo aver ricevuto un premio, per urlargli che «non me ne frega un cazzo di quello che pensi…».

Kurt dice:

«Rubo la vita dentro di me», e teorizza che «le parole fanno schifo. La musica è energia, una sensazione, atmosfera. Sentimento».

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Forse, è più sincera Amy:

«La musica è l’unica terapia che ho per trasformare i miei fallimenti in vittoria».

In ogni caso, tutt’e due fanno della verità il loro vangelo. Kurt: «Preferisco essere odiato per ciò che sono, piuttosto che essere amato per ciò che non sono». Lei: «Non ha senso dire cose diverse dalla verità». Come due persone distrutte dal loro tempo, dal banalissimo miraggio di una infanzia serena, hanno inseguito insieme il dolore e la sconfitta, con lo stesso, identico talento autodistruttivo.

Così poche cose li hanno differenziate nella vita e nella morte, che riesce difficile spiegarsi la diversità della memoria che li accomuna adesso, lui diventato una icona e lei solo una vittima di se stessa e degli altri, come una qualunque povera tossica.

Forse sono solo le scorie di una società antica, del maschilismo religioso su cui si fonda la nostra storia e la nostra civiltà. Chissà perché quando una coppia commette un delitto è sempre lei l’angelo del male.

Invece, la figlia dolente del tassista ebreo russo Mitch Winehouse, era semplicemente un genio della musica, come ripeteva il cantante jazz Tony Bennett, piangendo la sua morte, che aveva sviluppato nella propria sofferenza la capacità di trasmettere i sentimenti che passano nelle note.

Sono cose che possono fare gli artisti, non i tossicodipendenti.

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Tony Bennett ha continuato a piangere: «Quel che la gente non sa è che lei sapeva. Sapeva di essere in un sacco di guai e che non stava vivendo. La droga non c’entra. Non si faceva più. Era la vita che non c’era». Quella normale, quella degli altri, quella di un bambino che guarda un tramonto con la mamma e il papà. Era il suo cruccio.

Per questo aveva adottato una bambina caraibica. Doveva venire a vivere con lei quando è morta. Come se il dolore si trasmettesse e non finisse con noi. Forse è così davvero.

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  • Intanto Leland Cobain era il nonno di Kurt e non il padre, che si chiama Donald. Inoltre, con tutta quell’eroina, come avrebbe fatto a spararsi? Con tali livelli si muore istantaneamente. Inoltre, ci sono troppi altri indizi che fanno pensare che non sia suicidio. Informatevi.
    Justice for Cobain !!!!!!!!

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