Fa davvero specie vedere come, mentre la paludata pinacoteca di Brera conquista finalmente un direttore internazionale capace di gestire in autonomia il futuro di un museo degno del nuovo millennio, il Comune continui beatamente a delegare le proprie responsabilità culturali.
Quello del Mudec è solo l’ultimo più eclatante esempio di una gestione che, senza capo né coda, ha in questi anni trasformato gli spazi espositivi pubblici in contenitori a disposizione del miglior offerente, “location”, come si usa dire a Milano. Davanti al flop di un Museo delle culture extraeuropee che dopo l’inaugurazione primaverile ha ricevuto visite con il contagocce, la stagione si apre secondo schemi ormai noti e collaudati: governance affidata a società esterne (in questo caso il già testato Gruppo Sole 24 ore) e mostre acchiappa-pubblico senza esclusione di colpi.
L’antologica dedicata alla bambolina Barbie su cui Milano è tappezzata di pubblicità, la dice lunga. Alla faccia delle culture extraeuropee direbbe Toto’. Il programma presentato ieri alla presenza del sindaco dimostra ancora una volta la mancanza di quella strategia che, come promesso a inizio legislatura, avrebbe dovuto conferire una precisa identità ai vari spazi pubblici.
Le mostre dedicate a Mirò, Basquiat e Frida Khalo rappresentano di fatto la replica della linea di Palazzo Reale affidata alla vetrina di grandi nomi dell’arte del Novecento ma senza alcuna specificità e alcunché di nuovo sotto il profilo critico. Una società esterna anche in questo caso gestirà la biglietteria e in cambio garantirà il Comune qui successi di botteghino facili sui grandi nomi e da sciorinare come bilancio di fine anno. Non è una questione di colore politico, perché la giunta precedente agiva esattamente con le stesse logiche.
Vero è che una città come Milano, la città di Expo paragonata oggi più che mai alle grandi capitali europee come Berlino o Londra, meriterebbe altro. Basterebbe intanto affidare le stagioni espositive degli spazi pubblici – da Palazzo Reale al Pac al Mudec – a direttori di livello europeo nominati per bando di concorso sulla base dei loro curriculum. E oggi anche tra i giovani esistono risorse in grado di coniugare i grandi competenze tecniche a capacità manageriali capace di supportare i progetti.
Per guardarci in casa, basti citare giovani come Massimiliano Gioni (direttore di Fondazione Trussardi) o Vincenzo de Bellis (direttore di Miart). Tornando al Mudec, rimasto orfano in culla di un direttore che già governava senza infamia e senza lode il Museo del Novecento, va anche detto che soffre di un peccato originale difficilmente sanabile. Ci si chiede infatti sulla base di quale storia e a quali collezioni uniche Milano necessitasse di un museo delle culture extraeuropee. Senza voler essere esterofili, sulla Senna esiste il museo etnografico del Quai Branly: voluto da Chirac e nato dalla passione del grande mercante francese Jacques Kerchache, vanta una collezione di 300.000 pezzi da di arte d’Africa e Oceania che viene regolarmente rinnovata. Chapeau, direbbero i francesi, anche perché rappresenta una chicca in un sistema museale che, dopo il Louvre, vanta il Centre Pompidou, il Musee d’Orsay, il Palais de Tokyo eccetera. Ma noi a Milano? Non sarebbe stato più utile collocare nei grandi spazi dell’ex Ansaldo il famigerato museo delle arti contemporanee promesso da vent’anni prima alla Bovisa e poi, in tempi recenti, a Citylife?
Giandomenico Di Marzio (fonte: “Il Giornale”)
Qua la programmazione espositiva completa del MUDEC 2015/2016