La mostra monografica “L’uomo e la terra” a Palazzo Reale di Milano è ormai terminata da qualche mese. Van Gogh è stato il protagonista. Il suo mistico rapporto con la dimensione agreste della vita contadina scuote ancora oggi gli animi dei fruitori. Non a caso, sono state scritte pagine straordinarie a riguardo. Da chi in particolare? Un gigante del Novecento: Martin Heidegger, che con la sua opera ha dominato quasi per intero il panorama filosofico del secolo scorso, ed è attualmente tornato in voga sulla scia della sua presunta o meno adesione al nazionalsocialismo.
Un quadro, innanzitutto. Si tratta della rappresentazione di un paio di semplici scarpe contadine, ora conservata al Van Gogh Museum di Amsterdam e purtroppo assente nell’esposizione meneghina. Quindi, perché parlarne? Ciò che suggerisce Heidegger è una lettura persuasiva, una visione affascinante di questo legame tanto profondo quanto indissolubile del pittore olandese con la sua terra. Chissà che tutto ciò non possa permettere un ritorno critico sui temi e sulle opere esposte all’interno della stessa esposizione.
Buttiamoci nel cuore delle sue incantevoli riflessioni, traendone la linfa vitale che attrarrà d’ora innanzi lo spettatore ad un atteggiamento differente, magari impensato, dell’opera d’arte.
«Nel quadro di van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero far parte, c’è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccicati, denunciandone almeno l’impiego. Un paio di scarpe da contadino e null’altro. Tuttavia…
Nell’orifizio oscuro dell’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità alla morte. Questo mezzo appartiene alla terra e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso».
La citazione, tratta da L’origine dell’opera d’arte risalente al lontano 1935, propone qualcosa di straordinario circa l’esperienza pittorica di van Gogh, in forma quasi poetica: ciò che si esperisce nell’opera d’arte è l’accadere, l’avvenire della verità nell’istante in cui viene dipinta e accolta. Nella rappresentazione artistica s’informa la verità del paio di scarpe. In cosa consiste? Nel mostrarsi della fiducia che la contadina nutre nei loro confronti. Senza di esse, neanche avrebbe il coraggio e men che meno la possibilità di fare l’ingresso in quel mondo, quello della terra restia al trattamento, nel quale fa esperienza autentica della sua esistenza.
Lo sforzo di comprendere queste difficili parole potrà, forse, restituire alla visita dell’esposizione milanese una densità che solo dal maestro di Meßkirch potevamo ereditare. Nella maestosità dell’incontro tra i nostri occhi e l’opera d’arte, la verità sorge lì, dinnanzi a noi.