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Intervista a Valentino Vago

IMG_1922Alla Chiesa di San Giovanni in Laterano a Milano Valentino Vago sta ultimando la sua ultima fatica che sarà inaugurata sabato 25 alle ore 21. Le opere ambientali sono quelle a lui più congeniali, ma soprattutto quelle che ama realizzare, vado a trovarlo in cantiere e ne scaturisce un’intervista.

La tua ultima fatica, qui nella Chiesa di San Giovanni in Laterano, è quasi ultimata, come nasce l’idea di produrre opere ambientali?
E’ stata ispirazione, sin dagli esordi ho pensato a realizzare opere di grandi dimensioni, nel 1959 i primi approcci poi ho smesso fino al 1982 quando realizzai l’ambiente per la chiesa di Barlassina, il mio paese di nascita. Questa è la diciottesima chiesa che dipingo, naturalmente la più famosa è quella di Nostra Signora del Rosario in Qatar, è un’opera di oltre 10.000 mq., ma di tutte sicuramente questa è la migliore.

Come nasce il progetto?
Non progetto mai prima, guardo l’ambiente e parto dal colore, inizio sempre dal blu e poi tutto accade, la mia mente lavora in sintonia con l’occhio, mi nasce da dentro.
Gli ultimi lavori, le carte e le tele, li ho intitolati “1931” perché ho capito che le mie opere sono nate con me, dentro di me. Non esiste nella storia dell’arte un linguaggio uguale al mio, soprattutto per quel che riguarda i lavori di questo tipo di ambientazione. Io ho capito che potevo sentirmi realizzato come artista quando ho capito che dovevo stare al di fuori della storia dell’ arte.

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Coinvolgimento totale dell’ambiente e delle persone che entrano nell’ambiente?
Si è una comunicazione diretta tra l’opera e lo spettatore, dici bene quando affermi che è un coinvolgimento totale. O ti affascina o ti respinge, non ha via di mezzo. Io cerco il fascino, ricerco la bellezza che non è traducibile. Come accade nel farla, deve accadere nel guardarla: la mia opera o la senti o la ignori. Entrando nel mio ambiente di devi sentire coinvolto emotivamente, se questo non avviene allora non ho sortito l’effetto che desidera.

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E’ vero che ha bruciato i tuoi quadri alla fine degli anni ’50?
Si stanco di fare quello che facevo, quando ho capito che sapevo fare e che alla fine facevo quello che facevano anche altri, ho preso tutti i miei quadri, sono andato in un campo, e ne ho fatto un falò! E da lì che ho incominciato al mio personale percorso, cercando altro e cercando nel colore. L’opera è fatta con gli occhi e non la mente, abituare gli occhi alla bellezza e con questo intendo dire che devi abituare il braccio a seguire quello che l’occhio chiede.

E’ vero che dipingi con i polpastrelli?
Dipingo con le mani, ossia stendo il primo strato con il pennello e poi quando sono soddisfatto dell’opera l’ultimo passaggio lo stendo con il palmo della mano, ed è li che si illumina l colore, accarezzandolo si illumina.

Come era la Milano per gli artisti negli anni ’50?
La Milano di allora, per noi, era l’Accademia di Brera, il Bar Giamaica, e quelle poche gallerie che esistevano. Era tutto molto semplice, eravamo noi più semplici, più liberi, più veri.

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