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Intervista a Emilio Isgrò. Cancellare per affermare

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“Ho cercato sempre di fare le cose in modo che queste non fossero controllate dal sistema,
questo mi ha permesso di sentirmi libero”
Emilio Isgrò

 

Giornalista, scrittore, poeta, artista visivo, regista, dimentico qualcosa?
Credo di essere soprattutto un Cancellatore di tutte le forme esistenti e possibili, con lo scopo di crearne sempre di nuove.

Nella Cancellatura c’è volontà di distruggere la scrittura o di esaltarla?
Nel mio lavoro esiste questa doppia funzione: fingere di distruggere per esaltare e qualche volta esaltare per distruggere. È un’azione che nel momento stesso in cui distrugge, ricostruisce. È il negativo della scrittura che presuppone il suo positivo, difatti certe parole scampano alla cancellatura, a volte sono semplici segni come le virgole, la punteggiatura e le parentesi. Penso che la mia cancellatura non sia distruzione della parola ma un’esaltazione della scrittura e della sua funzione.

Quindi è un’affermazione del pensiero?
Si, è un’affermazione del pensiero. I latini dicevano che due negazioni affermano, io a forza di cancellare, quindi di negare, ho affermato la bellezza del mondo e della vita. Tutto il contrario di quello che la gente pensa del mio lavoro, che troppo spesso è percepito come un’azione distruttiva. Negli anni ho cercato di portare la cancellatura a essere uno strumento dialettico tra il si e il no delle cose, in un modo pendolare tra le varie possibilità, quindi un dubbio permanente, tipico del pensiero greco, mediterraneo e ancor più siciliano.

 

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Arriva all’arte visiva passando dal giornalismo e dalla scrittura, ci racconta il percorso?
Lavoravo a Venezia dove ero responsabile delle pagine culturali del quotidiano Il Gazzettino, allora correggevo gli articoli di Giovanni Comisso, grande scrittore. I suoi testi, battuti a macchina dall’autista-segretario, erano spesso incomprensibili e sgrammaticati. Fintanto che un giorno, cancellando e modificando, mi accorsi che la forza delle parti cancellate era più intensa di ciò che emergeva dal testo. Ero interessato alla poesia visiva, avevo pubblicato una raccolta di poesie e libri, in particolare con Arturo Schwarz, e fui ben accolto dalla critica letteraria. Tra i miei sostenitori c’era anche Pier Paolo Pasolini. Giunsi così alla cancellazione, che fu il mio gesto innovativo, voleva essere una forma di dissenso culturale, surrogato a quello sociale: era una terapia contro la violenza. Ho voluto inaugurare un linguaggio e allargare il campo del segno.

Le prime cancellature risalgono agli anni ’60, come furono accolte dal pubblico?
Tra le prime mostre ci fu quella alla celebre galleria di Arturo Schwarz, fu un grande scandalo: il pubblico non capiva il significato, forse fu letta come operazione di gusto dadaista, se non altro perché Schwarz era uno dei galleristi più attenti al dadaismo storico. Critica e pubblico mi guardavano con diffidenza, tranne un ristretto gruppo di persone. Gli esordi non furono facili, vendevo pochissimo o addirittura niente, ma a un certo punto, negli ultimi anni, vi è stata una svolta poiché gli stessi media si sono impossessati dei temi che avevo lanciato attraverso la cancellatura, che ha stimolato il pubblico entrando così nell’immaginario collettivo e a un certo punto, il mio lavoro, ha finito per interessare anche il mercato.

 

Quale è il criterio di scelta del testo da cancellare?
Ho cancellato di tutto, dall’Enciclopedia Britannica alla Treccani, ai Promessi Sposi, a testi inutili, ai quotidiani e molto altro. L’ideale è cancellare testi poco importanti, perché quelli importanti sono difficilmente abbordabili. Mi spiego: nel cancellare Flaubert ci si lascia suggestionare dalla forza dello scrittore e quindi ci si paralizza ed è impossibile proseguire.
La cancellatura funziona sul testo come la musica funziona sul libretto.

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“Oggi, 6 febbraio 1971, dichiaro di non essere Emilio isgrò”: quale significato aveva questa affermazione?
Ho fatto questa dichiarazione non per una forma rituale di suicidio ma per affermare meglio la presenza di un artista nel mondo, non volevo certo sparire. Era un’autocancellazione omeopatica, scaramantica.

1969 su una tavola scrisse solo la lettera G in memoria della strage di Piazza Fontana a Milano, che ricordi ha di quegli anni?
Lettera G tratta dalla parola strage. Sono ricordi tempestosi, chi ha vissuto quegli anni non può dimenticarsene. Dopo il 1974 Milano si era fermata, la buona borghesia non andava più in giro perché aveva paura di essere sequestrata e gli artisti, per un fenomeno di mimesi, partecipavano tutti alla spinta rivoluzionaria di quel periodo, vera o presunta. La rivoluzione si diceva che fosse dietro l’angolo, personalmente non ho mai preso la cosa alla lettera, per il semplice fatto che pensavo che la rivoluzione si sarebbe vinta con forme di giustizia sociali più alte ma anche con libri migliori, con un’arte migliore, una visione sicuramente ingenua.

Giunto a Milano ha esposto nelle più importanti gallerie: Apollinaire, Naviglio, Schwarz, Galleria Blu… Com’era l’ambiente artistico?
Sono arrivato a Milano nel 1956, avevo diciotto anni, allora Milano era una città cosmopolita, era una città che accoglieva gli artisti provenienti da tutte le parti del mondo, era una città aperta al mondo. Le gallerie che hai citato svolgevano un lavoro interessante, dove l’elemento cultura era più importante dell’aspetto mercantile. Il collezionista era nazionale e al massimo si volgeva al mercato francese, era un collezionista colto e benestante, questo fino all’avvento del mercato americano. Gli artisti si frequentavano, non si vergognavano degli insuccessi e il dissenso era un valore, mentre adesso esiste soltanto il consenso, anche se naturalmente vi sono delle eccezioni.

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Oltre alla Cancellatura hai realizzato delle sculture, una per la tua città d’origine e l’altra in occasione dell’Expo, quale origine ha il seme dell’arancia?
Tutti quelli che hanno fatto di Milano la loro città la sentono propria, ma non dimenticano mai le loro origini. Il sindaco di Barcellona – Sicilia, mia città d’origine, mi aveva interpellato per realizzare un’opera che focalizzasse l’attenzione sulla cittadina, quale segno di riscatto contro l’imperante potere mafioso. Fino ad allora non avevo mai realizzato sculture, inoltre dovevo creare qualcosa che fosse coerente con il mio lavoro. Pensai così che il seme d’arancio poteva rappresentare il territorio, e ingrandendolo in modo smisurato, cancellando così l’immagine di partenza, rimanevo nel mio campo di azione. Invece di collocare la scultura nella piazza del Duomo, chiesi che fosse posta davanti alla vecchia stazione ferroviaria, dove fino agli anni ’50 i fiori, le essenze e i frutti d’arance erano caricati sui treni e destinati alle grandi città come Milano, Parigi e Londra. Nel 1998 fu posizionato alla presenza di 200 sindaci provenienti da tutta Europa. Un simbolo di un momento storico-economico di successo di Barcellona. Nel 2015 il “Seme dell’Altissimo” è stato realizzato per l’Expo, un forte legame con la tematica dell’evento, realizzato in marmo purissimo cavato dal Monte Altissimo in Toscana, un filone di marmo che aveva scoperto Michelangelo. Il senso della scultura, al di la del significato intrinseco, è una congiunzione tra Milano, la Sicilia e la Toscana . A breve l’opera verrà posizionata davanti alla Palazzina Appiani, all’interno del Parco Sempione.

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Di cosa trattava “La jena più ne ha più ne vuole”?
Era la sceneggiatura di un film cancellato, ossia lo schermo veniva coperto da grandi macchie nere come le cancellature, avevo inventato anche la tecnica per rendere l’effetto a video, si sentiva solo la voce, come un kolossal cancellato. La jena più ne ha più ne vuole, era un modo per dire che le guerre di quegli anni, in particolare la guerra del Vietnam, divoravano il mondo. Il film non si fece, ma diventò una leggenda.

Cosa vuol dire essere un artista?
Per fare il mestiere dell’artista devi essere emotivamente coinvolto, ma devi anche essere in grado di farti scivolare le cose addosso altrimenti soccombi. Per un artista il consenso è importante, ma è ancora più importante come questo consenso si ottiene: se lavorando con fatica, poco o molto che questa sia, allora riesci a gestirlo e a difenderti dagli aspetti negativi che questo può avere. Un artista deve mantenere la sua visione, che dovrebbe essere sostanzialmente critica e divergente. L’arte è sempre un forte dubbio sull’esistente. Fare l’artista è stata una scelta voluta e costruita, l’ho fatto senza mai preoccuparmi degli esiti del mio lavoro.

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www.emilioisgro.info

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