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L’Europa non cade dal cielo. Per la pace e l’integrazione, contro tutti i nazionalismi, a Treviso

Emilio Isgrò, Europe Q99, Courtesy Archivio Emilio Isgrò e Collezione Emiliano ed Ottavia Cerasi Roma

 

Emilio Isgrò, Europe Q99, Courtesy Archivio Emilio Isgrò e Collezione Emiliano ed Ottavia Cerasi Roma

Dal 15 ottobre all’11 dicembre 2022 la Fondazione Imago Mundi, in collaborazione con il comune di Treviso, ospita una grande mostra collettiva che sviluppa una riflessione sul presente dell’Europa attraverso il dialogo tra i linguaggi di venti artisti diversi.

L’Europa non cade dal cielo è il titolo dell’esposizione, che allude all’omonima opera di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo, i cui scritti del secondo dopoguerra anticipano sorprendentemente temi oggi più che mai attuali, attraverso un’articolata riflessione circa l’identità del vecchio continente, smembrato dall’implacabile avanzata dei nazionalismi. La gestione delle fonti energetiche, il ruolo della diplomazia europea e in primo luogo l’esigenza di integrazione e di un costante impegno per la pace sono le istanze da cui muovono i venti artisti in mostra, indagate analizzando le ombre che affliggono l’Europa contemporanea, dai flussi migratori, all’emergenza sanitaria, dalla crisi climatica alle vicende geopolitiche, fino ai recenti conflitti.

L’esposizione si articola nelle diverse sedi cittadine della fondazione, simulando un itinerario geografico che attraversa il continente europeo: la prima sezione ospitata al pian terreno di Ca’ Scarpa è denominata “Nel Nord”. In questi ambienti, sotto la curatela di Nicolas Ballario, è stata ricollocata l’opera di Maurizio Cattelan, Stadium, musealizzata per la prima volta dopo trent’anni dalla sua presentazione alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Si tratta di un calcio balilla di oltre sei metri, provvisto di ventidue postazioni di gioco, animate attraverso veri e propri happening dallo scontro tra due squadre: autoctoni contro migranti. Nata come manifesto antirazzista che riflette sul montante clima xenofobo dei primi anni novanta, l’opera di Cattelan crea un cortocircuito fra quella che è considerata una passione nazionale, il calcio, e una tematica ancora molto attuale come la crisi di migranti e profughi. In bilico tra intrattenimento e critica sociale, Stadium rappresenta per le sue implicazioni sociali e culturali una pungente riflessione sui modelli di integrazione, tra l’incontro e lo scontro che le società europee hanno adottato negli ultimi anni nei riguardi di chi migra verso il vecchio continente.

Maurizio Cattelan, Stadium, 1991, legno, acrilico, acciaio, carta e plastica, Collezione Privata

La mostra prosegue a Casa Robegan, in cui è allestita la sezione “Sul Mediterraneo”, bacino di inesauribili risorse sul quale si è fondata la genesi della società europea. Gli autori delle opere esposte in questi ambienti hanno eletto il mare a simbolo costitutivo di un’identità sociale, indagato nella sua duplice connotazione di barriera e accesso. Le acque che lambiscono il sud del continente vengono di volta in volta assimilate a confini invalicabili, che arrestano fisicamente lo spostamento umano e al contempo si configurano, grazie all’intervento artificiale, come porte d’ingresso verso inediti orizzonti. Emblematico racconto di questi immaginari risulta la serie fotografica Porti di mare, di Gabriele Basilico, la cui ricerca si focalizza sulla documentazione dei porti europei, topoi di frontiera, paradossalmente instabili nelle proprie rigide geometrie. Nel giro di circa dieci di anni Basilico ha immortalato i porti di numerosi centri europei, tra i quali le città di Bilbao, Anversa, Amburgo, Dieppe, Trieste e Rotterdam. Negli scatti di Basilico i paesaggi, apparentemente definiti, trascendono la dimensione di luoghi tangibili per assumere i connotati di spazi metafisici, espressioni di un altrove irrinunciabile, costante rimando ai confini liquidi che da sempre hanno protetto l’Europa, garantendo al contempo il superamento dei suoi confini.

Gabriele Basilico, Dieppe, 1984, stampa ai sali d’argento, Courtesy dell’Archivio Gabriele Basilico

Nelle Gallerie delle Prigioni si sviluppa infine la sezione più densa della mostra, “A Est”, dedicata alle complesse dinamiche che regolano le regioni orientali del continente, spesso rilette attraverso lo sguardo esterno di artisti originari di luoghi lontani. É il caso dell’installazione luminosa del collettivo francese Claire Fontaine, una scritta in romani, la lingua Rom, appartenente alla minoranza etnica più numerosa d’Europa, da secoli vessata dalle ingiustizie dell’antiziganismo. Il neon esposto costituisce la versione in lingua romani della serie Foreigners Everywhere (Stranieri ovunque): ispirati all’omonimo collettivo anarchico torinese, gli artisti hanno tradotto l’asserzione nelle diverse lingue parlate dai migranti, tra cui arabo, curdo, cinese e lingua romani, attuando una una riflessione circa il senso di appartenenza a una comunità. Si innesta nello spettatore lo spaesamento conseguente all’ambiguità connaturata all’opera: connotata da una duplice lettura, essa può essere associata al dilagante fenomeno della xenofobia o, al contrario, alla necessità di esternare la timorosa condizione di un apolide. Il cortocircuito rimanda alle istanze di una società globalizzata e alle sue politiche di esclusione e inclusione, che influiscono inesorabilmente sull’identità di chi può definirsi europeo e chi no.

Claire Fontaine, Foreigners Everywhere (Romany), 2012, Neon, Collezione Agovino, Napoli

La nuova esposizione della Fondazione Imago Mundi intercetta, attraverso le molteplici forme dell’arte, le più divergenti visioni relative al dibattito sull’identità di un’Europa sempre meno definita. Benchè l’obiettivo non sia certo quello di fornire risposte definitive, ma stimolare lo spirito e suggerire riflessioni, al termine di questo tortuoso itinerario il visitatore prende coscienza delle più sottili sfaccettature di quell’ “arcipelago etnico” con cui Zygmunt Bauman definisce l’Europa nel suo celebre saggio, Oltre le nazioniL’ambizione all’integrazione europea, quale collante dell’arcipelago frammentato di cui parla Bauman, pone un’alternativa paradigmatica al destino della società umana: questo è il grido corale degli artisti in mostra, la visione condivisa di una missione collettiva, “l’europeo in conflitto con il suo essere sociale per diventare, con gli altri, ciò che è, un uomo”.

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