Mistress America, noir e screwball comedy nel nuovo film di Noah Baumbach, in sala dal 14 aprile.
«Non è ogni storia, una storia di tradimento?»
È con questo twist di colore nero che si apre Mistress America di Noah Baumbach, in uscita questa settimana. Il film chiude un’ideale trilogia sul passaggio all’età adulta – giocato su un brillante mix tra i toni del noir e quelli della screwball comedy – e sulla rappresentazione di due generazioni a confronto, quella dei trentenni – che ha arginato con regole proprie, sicuramente emotive e alla deriva, la crisi economica del 2008 – e quella dei ventenni, impazienti e occhieggianti su un edge che deve a tutti i costi essere of glory.
>> Come i film precedenti: Frances Ha (2012) e Giovani si diventa (2014), Mistress America nasce da un lavoro di scrittura a quattro mani fra il cineasta Noah Baumbach e la compagna e musa Frances Ha, protagonista della pellicola insieme alla giovane Lola Kirke. Greta Gerwig, aveva già conquistato il cuore degli spettatori in Frances Ha, con un personaggio lieve, una giovane Holden alla ricerca del suo posto nella New York post crisi economica.
Greta Gerwig, torna qui di fronte alla camera con un ruolo iconico, che finisce col raccontare come mai nessuno prima l’attuale generazione dei trentenni, dall’identità lavorativa liquida alla certosina rappresentazione di sé sui social – «smettila di parlare di Twitter! È imbarazzante» dirà la giovane Lola Kirke durante la lite che segna l’apice del dramma – passando per un ormai sdoganato atteggiamento poser e hipster. Quella che Greta Gerwig interpreta qui è quell’età in cui «il desiderio è superiore ma le possibilità sono inferiori».Baumbach e Gerwig considerano Mistress America come il film gemello del precedente Giovani si diventa, ma sono presenti anche alcuni elementi che richiamano Frances Ha, dalla sovrastante allure newyorkese al sogno del college messo a soqquadro e incasinatissimo, che scopriamo essere ignaro e vacuo in sé per sé (tutto il contrario di quello che i teen-drama televisivi degli anni Novanta ci avevano insegnato). Qui il confronto casuale (che casuale non è mai) fra le due generazioni vede l’incontro fra la matricola alla Barnard University, Tracy (Lola Kirke) e la sua quasi sorellastra Brooke (Greta Gerwig).
Delusa e sfiatata dalle sue primissime esperienze al college e ridotta a mangiare pizza fredda mentre risuona No more lonely night di Paul McCartney, «Baby Tracy» sarà catapultata nella vita dinamica e supercool di Brooke, fra concerti indie in cui Brooke sala sul palco solo per ballare, come la prima Madonna a New York, tweet galeotti e il progetto di aprire un ristorante indipendente insieme a un fidanzato greco. Al solito, non è tutto oro quello che luccica e Brooke ci appare sempre più vicina a noi: il classico tipo in grado di innamorarsi di tutto ma senza portare a termine mezzo progetto, alla ricerca di una qualche forma di maturità che però non comporti la perdita di un universale ventaglio di possibilità. Tracy, dal canto suo desidera farcela – come il mellifluo Jamie di Giovani si diventa – il suo è un personaggio che nutre uno sguardo à la Tennessee Williams (con annesse esplosioni emotive che qui finiscono però per investirla in prima persona), e fa l’uso di Francis Scott Fitzgerald che fu già di Dan Humphrey in Gossip Girl.
>> Intorno a loro una fauna di personaggi spassosissimi, un coro che completa la rappresentazione delle due generazioni, con altre nevrosi e tic, nel quale spicca la nemesi giurata di Brooke: Mamie-Claire (Heather Lind), la classica amica stronza su cui possiamo sempre contare.
Quando il dramma sarà esploso e passato via come un vento artificiale fra i grattacieli di New York, ci accorgeremo che avrà portato via con sé tutte le velleità, lasciandoci soli in città il giorno del ringraziamento. Quella che era stata una delle fugaci idee di Brooke, sul finale sembra però materializzarsi e declinarsi nelle due protagoniste: la creazione di un’eroina contemporanea – che Brooke avrebbe chiamato Mistress America – in grado di incarnarne l’essenza dell’America. Non importa che sia una giovane scrittrice, pronta a farsi strada sulla scena newyorkese piuttosto che una trentenne che lascia New York per la West Coast, ancora alla ricerca di un posto tutto per sé, l’importante è che abbia nelle cuffie la programmatica e liberatoria You could’ve been a Lady degli Hot Chocolate.