L’ultima frontiera dell’arte applicata ai computer è l’eternità. Non so se sia giusto o sbagliato. So che è strano. Alla Galerie Looiersgracht60 di Amsterdam hanno presentato il ritratto di un uomo del diciasettesimo secolo con cappello nero e collare bianco creato da Rembrandt, il grande artista morto quasi 350 anni fa. L’hanno chiamato The Next Rembrandt, e anche se i veri autori sono computer e big data, sembra davvero un’opera uscita dalla mente, dalle mani e dall’estro del pittore di Leida.
Anzi, in un certo senso è proprio suo, perché grazie a un algoritmo e alla stampa tridimensionale hanno realizzato un quadro inedito con lo stile del geniale autore che reinventò il rapporto fra osservatore e opera, riproducendo fin nei minimi dettagli non solo la sua tecnica e la scelta dei colori, ma persino la sua anima, quella caratteristica misteriosa che distingue l’artista dall’artigiano.
Ci sono voluti diciotto mesi di lavoro certosino per far rivivere uno dei più eccelsi maestri di tutti i tempi, come se i secoli che ci separano da lui non esistessero più e Rembrandt continuasse a dipingere e a esistere assieme a noi. In realtà, il quadro è stato costruito solo attraverso la potenza di calcolo del computer, che ha definito con precisione meccanica lo stile e il valore di questo artista.
La sensazione è che questa volta il computer non abbia cancellato l’uomo, come fa quasi sempre. Ne ha sfruttato, invece, la capacità unica di rappresentare il mondo. L’idea è venuta a un pubblicitario, Bas Korsten: «Perché non possiamo distillare il Dna artistico di un pittore estraendolo dalle sue iopere e creandone una nuova partendo da quelle infornmazioni?».
Committente .la Banca Ing., che lo acquisterà nella sua collezione. Ma si può rubare il Dna di un uomo? La cosa che mi angoscia è se la macchina potrà davvero un domani sostituire anche questa unicità, perché forse sarebbe la morte dell’arte, che non è mai stata meccanica nella sua storia, ma profondamente interiore e individuale, persino nevrotica nella rappresentazione che ne faceva il suo creatore.
Il fatto è che l’evoluzione culturale degli strumenti si accompagna ormai all’espressione sempre più raffinata del cervello umano, al legame che tra esso scaturisce tra sapere e saper fare. L’archivio del sapere di una macchina è più grande del nostro. Il problema è che adesso sembra superarci anche nel saper fare. Il nuovo quadro di Rembrandt è stato firmato da sviluppatori, analisti, esperti di dati, ingegneri e storici dell’arte di diverse aziende come Microsoft, Delft University of Technology, il museo Mauritshuis drll’Aja e la Casa Museo di Rembrandt ad Amsterdam. Ci sono gli uomini dietro la macchina, va bene.
Ma l’arte è un prodotto collettivo? Questo piccolo esercito al servizio del computer ha campionato e memorizzato 168.263 frammenti pittorici presi da oltre trecento dipinti dell’artistacompresi fra il 1632 e il 1642, «acquisiti con scanner ad altissima precisione di oltre 500 ore di scansioni e 150 GB di materiale», come ci spiega un articolo di Repubblica. La creatività di Rembrandt è stata sviluppata dai calcolatori, riproducendo geometrie e materiali pittorici, spazialità, «schemi ricorrenti nella realizzazione dei volti nei ritratti», e quindi tutto il compendio della sua tecnica.
Nella società dell’informatica, forse noi siamo dei sopravvissuti di un’altra epoca. Ma che dobbiamo fare? Ritirarci in buon ordine, sparire, o accettare questa realtà? Io ho scelto di sopravvivere ancora un po’. Ci sono delle colline del Chianti pettinate come un’opera d’arte, sullo sfondo di torri avite che sono rimaste in tutti quei secoli che ci sono voluti per fare quei campi, quelle vigne sui dossi in faccia al cielo. Se il cielo ce lo hanno regalato, quei paesaggi li abbiamo fatti noi, li hanno costruiti i nostri contadini, con le loro mani e la loro fatica, come le distese di granoturco fra i balzi dell’Orciano Pisano e le sponde dei laghi in Lombardia.
Ci sono cose che il computer non può ancora fare.
Non so se è una consolazione. Ma perché debbo essere giudicato da una macchina? Può amarmi, una macchina, o può odiarmi? Due ricercatori del Dipartimento di Computer Science della Rutgers University, New Jersey, Ahmed Elgammal e Babak Salem, hanno già elaborato un algoritmo in grado di esprimere giudizi critici sulla pittura, sviluppando un codice che analizza la naturalezza delle forme, la verosomiglianza delle scene, la nitidezza dei colori, la complessità della trama, la rilevanza delle opere nel contesto storico in cui sono prodotte. Niente che possa capire l’anima dell’autore. Pensateci, perché è questo che ci aspetta: un mondo senza anima.
Proprio come sono i quadri creati dall’intelligenza artificiale di Google e già andati all’asta a San Francisco. Non è che sia stato un gran successo di soldi. Il Wall Street Journal ha raccontato che le sei opere principali dipinte dall’algoritmo del motore di ricerca sono state vendute a ottomila dollari.
C’erano paesaggi psichedelici, foreste ispirate dall’impressionismo di van Gogh, scorci fantastici di castelli, e animali. Non c’è niente del nostro mondo. Ma forse viverlo è diverso che conoscerlo.
Io non mi darei tanta pena. Per fare un clone di Rembrandt ci vuole Rembrandt. E a me basta questo per affermare che nessuna macchina può davvero sostituire un artista.