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L’eterna bellezza della poesia di William Shakespeare

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Per lui che vedeva la brevità della vita come una condanna, forse 400 anni potrebbero anche bastare. William Shakespeare, nato – forse – il 23 aprile del 1564, da John Shakespeare, guantaio e conciatore divenuto balivo di Strafford prima di impegolarsi con i debiti, e Mary Arden, figlia del ricco agricoltore cattolico Robert Arden, morì già famoso anche se non ancora celebrato come avvenne solo dopo la sua scomparsa, il 23 aprile del 1616, 400 anni fa esatti.

Sappiamo la data del suo battesimo – 26 aprile del ‘64 – e che frequentò le scuole superiori senza laurearsi, prima di abbandonare la bottega del padre per andare a Londra a cercar fortuna, dopo aver sposato Anne Hathaway, di otto anni più grande, quando lui ne aveva solo 18. Ma da lì in poi, fino ai giorni dei suoi primi successi teatrali, la vita del più grande poeta e drammaturgo del mondo è una leggenda avvolta nella nebbia, proprio come il suo volto, tramandato ai posteri da artisti che mai lo avevano nemmeno conosciuto.

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Secondo alcuni, in quel periodo, si mantenne facendo l’insegnante di campagna, mentre altri studiosi sostengono che fu assunto come tutore da Alexander Hoghton di Lancashire. Non si sa neppure come cominciò la sua carriera teatrale: forse si unì a una delle tante compagnie che passarono da Strafford in quegli anni. In quel mistero quasi irreale, confrontato con tutto quello che noi conosciamo oggi della sua anima, c’è in fondo anche una parte della sua grandezza.

Sta di fatto che nel 1592, quando rappresentarono l’Enrico VI, che è la sua prima opera, la sua fama era già in ascesa vertiginosa. Da allora, è sempre e soltanto cresciuta. Ma perché, come solo Dante e pochi altri, i suoi versi entrano ancora nella testa e nel cuore, come se ci parlassero nel nostro tempo e non arrivassero da giorni distanti più di 400 anni?

Noi sappiamo che è la bellezza che li rende attuali, e la bellezza è una strana cosa difficile da definire: secondo il Devoto ed Oli «è la qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione». In realtà, essa è qualcosa di più e di diverso. Sebbene nella vita comune spesso si indichi con la bellezza anche il gusto estetico, si tratta, in verità, di un abuso di linguaggio, che si riferisce soprattutto a un giudizio strettamente individuale e personale, quindi soggettivo. Esiste, invece, una bellezza oggettiva che è un patrimonio comune, ed è un insieme di qualità che rispondono a dei canoni precisi.

La bellezza oggettiva è legata al tempo e a una determinata cultura. Henrik Ibsen diceva che «è una moneta che ha corso solo in un dato tempo e in un dato luogo». Eppure, può diventare eterna, quando la sua dimensione umana è soltanto l’aspetto esteriore di una più grande e incalcolabile bellezza naturale. Aristotele e Platone sono stati i primi a spiegarci che il bello è «il vero». Giambattista Vico affermò poi un altro criterio, secondo il quale il vero è il «fatto». Unificando questi due concetti, ricaviamo la forma occidentale della bellezza, che è l’Arte. Il bello è nell’arte, ed è proprio questa la condizione che integra la condizione umana con quella naturale. Kant definisce il bello naturale come “bello d’arte”, che equivale al bello di natura.

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Oscar Wilde diceva che «la bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio, perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna». Ecco perché è eterna. In realtà, la bellezza appartiene alla vita, può essere gioia e dolore, anche se nella sua definizione letteraria possiamo incontrarla nel sorriso di una persona amata, fra le note di uno spartito, nei colori e nelle forme di un dipinto.

In Shakespeare non l’abbiamo semplicemente incontrata nelle parole. Per Plotino le cose materiali sono belle in quanto partecipano a un’idea. E il grande drammaturgo non ci ha soltanto raccontato il suo tempo, ma ci ha lasciato soprattutto un’idea della vita e del mondo che essa sì è immortale, spiegandocela con le parole della sua poesia. E’ per questo che tutta la sua opera – 37 testi teatrali, 154 sonetti e una serie di altri poemi composti nei 25 anni compresi fra il 1588 e il 1613 – costituisce una parte fondamentale della letteratura di tutto il mondo ed è continuamente studiata e rappresentata in ogni parte del globo.

I drammi di Shakespeare si interrogano sull’identità dell’uomo, sull’assurdità della vita, sui misteri profondi e inconfessabili dell’animo umano, senza giungere mai a una certezza, a una verità che allontani tutte le incertezze. Nelle sue opere racconta l’uomo che afferma se stesso contro i limiti posti dalla realtà e dal destino, ma con le lacerazioni dell’individuo e la debolezza degli ideali, una figura che viene dall’umanesimo del Rinascimento per allungarsi fino ai giorni nostri. In Shakespeare, il dubbio sulla vita è profondo e incrollabile: questa nostra fragile e faticosa esistenza, minacciata dalla continua presenza della morte, è anche un sogno, un’illusione, come sostiene Macbeth?

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Nella disperazione di queste parole c’è tutto il mare infinito del tempo e tutto il tempo che ci vuole e che deve ancora venire: «La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non ne sa più niente. E’ un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furori, che non significa nulla».

E’ l’angoscia senza tempo della nostra condizione di piccoli uomini sperduti nel mondo.
La conosciamo tutti. Ma uno solo è stato capace di raccontarla.
E’ questa la bellezza.

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  • Maria Antonietta Sessa
    Bellissimo articolo; tuttavia devo sottolineare un errore proprio all’inizio del testo: Shakespeare considereva come una disgrazia non la brevità di una vita ma il suo esatto contrario, come afferma Amleto nel suo celebre monologo.

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