The VVitch: alle origini del male nei boschi del New-England, l’esordio horror del regista Robert Eggers.
Sessant’anni prima che iniziassero i sanguinosi processi alle streghe di Salem, i puritani – gli intransigenti separatisti dalla chiesa anglosassone – erano un’esigua parte delle prime comunità che dall’Inghilterra raggiungevano le future coste del New-England per fondare insediamenti e colonie che avrebbero dato vita ad articolate e fiorenti comunità nei decenni successivi. Proprio da un simile nucleo minimo, da una famiglia che definiremmo puritana ante-litteram, muove il primo lungometraggio di Robert Eggers, The VVitch – A New-England Folktale.
Bandito dalla colonia per aver esasperato fino all’ossessione i toni della sua preghiera, offendendo le leggi della comunità e della chiesa, William (che ha la voce baritonale da sermone in piazza di Ralph Ineson), sua moglie Katherine (Kate Dickie, sull’orlo dell’isteria di una nuova mommie dearest) e i cinque figli – Thomasin in età puberale, Caleb in procinto di lasciare l’infanzia, Jonas e Mercy due piccoli gemelli rompiscatole e il neonato Samuel – s’innestano ai margini di un lembo boschivo fuori dalla colonia, convinti di aver raggiunto la libertà necessaria alla preghiera perpetua e pervasiva che tanto li ossessiona.
>> Robert Eggers per dichiarazione manifesta in una nota alla fine del film ha costruito The VVitch sull’analisi di diari e memorie redatti durante il travagliato processo di colonizzazione avvenuto all’inizio del XVII secolo nella Nuova Inghilterra. In William ritroviamo il celebrato incontro con la wilderness, il concetto che la sopravvivenza fisica in un territorio dalle condizioni proibitive e primigenie sia legato a una rinascita spirituale. Nel tentativo di fare della sua vita un sermone, William costruirà se stesso come un «Adamo americano» per poi capitolare nella sua inettitudine e ipocrisia.
Pietra fondamentale della cultura cristiana, in The VVitch la famiglia è già origine di traumi, orrori e tormenti insuperabili. Tutta la famiglia assiste allo sbocciare della figlia maggiore Thomasin (una lattea e molto capace Anya Taylor-Joy), vivendo questo momento come una minaccia annunciata: di seduzione nei confronti del fratello adolescente Caleb e di detronizzazione del ruolo materno.
L’ipocrisia di William, in grado di mentire e demistificare, e la sua inettitudine nell’agricoltura e nella caccia porteranno la famiglia sull’orlo della fame e della disperazione. Di contro si fa sempre più evidente il forte accento sensoriale che Eggers pone sulla figura di Thomasin.
La primogenita di William diventa suo malgrado ponte fra la baracca del padre e il bosco liminale, una chiave di volta che permette l’affiorare di un forte senso di spiazzamento (una capacità che pensavamo perduta nell’horror contemporaneo), di estraneità e alienazione nei confronti delle scelte del padre. Sarà tramite Thomasin che affiorerà quel forte potenziale di evanescenza, paura e orrore che fa la differenza in The VVitch.
Il XVII secolo è un periodo in cui la posizione dell’uomo nello spazio doveva corrispondere al suo statuto morale e non a caso Eggers colloca la famiglia al limite di quel bosco che sappiamo essere luogo malefico d’elezione del racconto popolare. The VVitch è costruito per essere il folktale del titolo, vi ritroviamo la naturale barbarie della fiaba europea, col suo crudele e informe schizzare di sangue – si pensi alla mefistofelica creatura che ricopre il suo corpo di vecchia col sangue dell’infante o all’invitante bacio che la strega riserverà a Caleb nella casetta del bosco, quasi fosse il marzapane di Hänsel e Gretel.
La fiaba dei fratellini che stavano per essere mangiati dalla strega ha più di un legame con The VVitch, Eggers l’ha rappresentata in un cortometraggio animato dal sapore espressionista e la stessa Thomasin la cita quando minaccia di mangiare la piccola e rompiscatole sorellina Mercy una volta che non avranno più nulla a disposizione.
Come quelli della Mitteleuropa anche i boschi del nuovo mondo riecheggiano di sussurri, grida, lamenti e agghiaccianti canti in lingua enochiana. Il male è seduttivo, scaltro e sa coniugarsi a suo piacimento: in una filastrocca per bambini – come quella dedicata dai gemelli Jonas e Mercy al caprone nero Black Phillip – piuttosto che nelle voraci e sensuali labbra di una strega nel bosco. Il male è anche feroce e bieco, non sembra avere confini né giustificazioni (siamo lontani da normalizzazioni del male à la Babadook).
>> L’ingiustizia tipica della fiaba e la disumanità di un regime patriarcale di matrice cristiana si coniugano in The VVitch per assumere i connotati di genere. Thomasin è vittima designata perché donna, quindi colpevole e bugiarda a causa della sua natura biologica. Non a caso il suo monologo-sfogo sul finale, che smaschera la viltà del padre e la connivenza e l’invidia della madre, possiede i caratteri di un discorso proto-femminista.
Così come nel racconto popolare le descrizioni sono spesso scheletriche e la terminologia generica, Robert Eggers rifugge ogni orpello stilistico, la luce che ha scelto è naturale come quella di Lubezki in The Revenant e l’impostazione delle scene richiama il teatro elisabettiano. Questa luce è così gelida e venefica che finisce per trasfigurare la fisionomia dei personaggi, rendendoli disumani, e negli ambienti chiusi serve alle candele per proiettare sui muri orribili e multiformi ombre danzanti. L’effetto raggiunto è una discesa nei territori del perturbante degna della più agghiacciante fiaba dei fratelli Grimm.
The VVitch è un’opera stratificata, si presta a più di una lettura e offre diversi spunti stilistici e visuali, non per ultima la volontà di richiamare l’opera di Andrew Wyeth e Francisco Goya. L’omaggio a Wyeth – che dedicò la sua vita a ritrarre la gente del New England – è chiaro nella composizione e nella scelta della luce, un incontro fra sguardo realista e gotico americano che è proprio la cifra stilistica ricercata da Eggers in The VVitch. Ritroviamo Goya nel mefistofelico e liberatorio finale, un incontro ferale e aereo nel cuore della foresta che come accade per le opere del pittore spagnolo difficilmente riusciremo a dimenticare.
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