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Intervista a Rossella Farinotti. Dal mitico dizionario cinematografico alla curatela indipendente

Rossella Farinotti Rossella Farinotti
Rossella Farinotti
Rossella Farinotti (Foto: Zeno Zotti)

“Non è facile per nessuno essere “figlio d’arte”. Per Rossella Farinotti il compito dev’essere stato ancor più difficile. Con un padre scrittore, critico cinematografico, addirittura attore, affrancarsi e dimostrare quanto si vale in proprio è una bella impresa. Ma Rossella ci è riuscita in pieno.” (Giancarlo Zappoli- prefazione de Il quadro che visse due volte)

Co-titolare del celebre dizionario cinematografico, critico d’arte, giornalista e curatrice. Ha 31 anni e l’aria sbarazzina, eppure Rossella porta con disinvoltura un decennio di anteprime, Biennali e vernissage. Dopo la laurea in cinema, Farinotti Junior abbandona (solo momentaneamente) le orme paterne e si iscrive all’accademia di Brera. L’incontro col mentore Marco Meneguzzo segna l’ingresso nel mondo dell’arte, per un susseguirsi di avventure nel segno della contemporaneità. Dal lavoro presso l’assessorato alla Cultura del comune di Milano durante la realizzazione del Dito di Cattelan all’organizzazione di progetti presso spazi indipendenti, dalla collaborazione con Flash Art all’apertura del blog Labrouge. Per non parlare delle recensioni su Mymovies e della redazione del mitico “Farinotti”: un lavoro certosino che Rossella porta avanti con passione da sette anni.

È giugno e piove a dirotto. Rossella mi da appuntamento da Cucchi: il cafè milanese dove -alla fine degli anni Settanta- Pino Farinotti scrisse la prima edizione della bibbia della settima arte. Sono trascorsi più di trent’anni; oggi a quel tavolino di Corso Genova siede una giovane donna, che ha saputo accogliere l’eredità cinematografica paterna, per farsi regista di una vita degna di un film.

Rossella, che ruolo ha avuto il cinema nella tua formazione? Mi riesce difficile pensarti come una bambina tutta Cenerentola e La bella addormentata nel bosco.

Sicuramente il cinema ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione perché mio padre (Pino Farinotti NDA), che è critico e storico del cinema, mi ha fatto vedere fin da piccola i film che “contavano”, senza risparmiarmi i Bergman, i Dryer e i Fellini, che ora amo e da cui non posso prescindere per ciò che faccio, ma che forse, a 7/8 anni, erano un po’ “rischiosi”. Penso appunto quando ho visto “Il posto delle fragole” a 8 anni e non ho dormito per giorniNon l’ho più rivisto fino all’Università, ahah. Son cresciuta anche con pellicole più leggere, come Biancaneve – che il Pino ha sempre giudicato importante – o i musical con Gene Kelly! E comunque il nome che porto non poteva che essere una citazione. Se fossi stato un maschio avrebbe deciso mia madre.

Dopo la laurea in Cinema, ti sei iscritta all’Accademia di Brera. Cosa rappresenta per te il connubio fra arte e cinema, a livello personale e professionale?

Ho fatto un anno di Lettere moderne in Statale, ma poi ho cambiato in Beni Culturali indirizzo cinema, per approfondire la sua storia. E forse perché mi era naturale. Alla specialistica mi sono iscritta a Brera, rispolverando la passione che, invece, mia madre mi ha inculcato per l’arte. Ho scoperto che a Milano esistevano tantissime gallerie che trattavano il contemporaneo; a 21 anni ho iniziato a lavorare da Project b contemporary art e non mi sono più fermata.Ma il cinema è sempre latente: anni fa ho cominciato a scrivere per il sito Mymovies, sia articoli, sia brevi saggi sul rapporto tra arte e cinema, da cui è uscito il libro “il Quadro che visse due volte (davvero splendido! NDA), edito da Morellini, che ha creduto in me.

Sei nata e cresciuta a Milano. Fin dagli esordi hai preso parte a progetti volti a sottolineare il legame fra l’arte e la città. Basti pensare al Dito di Cattelano ad Arte in Sarpi.

Milano è la mia città, e qui ho lavorato sia per privati che per istituzioni. La realizzazione di L.O.V.E. di Maurizio Cattelan (2010), ad esempio, è stata una delle esperienze lavorative più importanti. All’epoca ero assistente dell’assessore alla cultura, che allora era Finazzer Flory. Nel 2013 invece sono stata contattata dai Commercianti di Paolo Sarpi dove ho sviluppato un progetto super articolato con 90 artisti all’interno di botteghe storiche, negozi cinesi, agenzie pubblicitarie… una faticaccia, ma importante per la relazione tra il contemporaneo – gli artisti lavorano a contatto con la strada e i negozianti – e il tessuto interno di una via complessa come Sarpi.

Seguendo lo stesso filone, l’anno scorso hai dato vita a Giants in Milan (trailer): un documentario sulla scena artistica milanese.

Si, insieme al regista Giacomo Favilla, ho realizzato un documentario su Milano e l’arte contemporanea. Con “Giants in Milan” abbiamo cercato di raccontare il volto più vivo della città attraverso lo sguardo -ampio e articolato- di critici – dalla FAM a Massimiliano Gioni-, galleristi – da Charlie Lioce, a Raffaella Cortes, fino a Massimo De Carlo -, spazi indipendenti e artisti – da Isgrò fino a giovanissimi – che qui hanno sviluppato realtà di riferimento. Vorrei andare avanti con le nuove presenze, come la Fondazione Prada e gli spazi indipendenti che hanno aperto nell’ultimo anno.

Pur essendo legata alla tua città natale, non hai esitato a viaggiare e a scoprire nuove culture, tanto da esserti specializzata in arte americana, lavorando con artisti di rilievo internazionale.

Mi è sempre piaciuto viaggiare. Soprattutto per vedere mostre e musei, sola o con Thomas (il giovane e raffinato artista Thomas Berra NDA): il mio compagno. Con la scusa della tesi, durante l’università, ho vissuto un po’ a Berlino e poi a New York. Dal 2014 mi muovo tra Milano e Chicago. Qui, grazie anche a Giancarlo Politi con Flash Art e a due amici messicani -l’artista Maximo Gonzalez e il poeta Ivan Buenader- sono entrata in contatto con una realtà vivida e persone meravigliose, diventate poi amici o collaboratori, come Allison Glenn, Nazafarin Lotfi e Rodrigo Lara, ma anche Monique Meloche, Tony Lewis e Theaster Gates. A febbraio porterò Gregory Bae a Milano, presso Federico Luger. Inoltre  da due anni collaboro con la galleria moniquemeloche per Artissima. 

Nel mondo dell’arte la nomina di Cecilia Alemani come curatrice del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia è stata percepita come una rivincita femminile. Ti senti discriminata in quanto donna? Che rapporto hai con le tue colleghe?

Lavoro molto bene con le donne. Anche con gli uomini, ovviamente. Però con le donne c’è una connessione immediata, ci sono dei passaggi in meno. Penso alle “mie” storiche amiche artiste, come Linda Carrara, Silvia Mei e Shanti Ranchetti, ma anche Sabrina Casadei e Ester Grossi; oppure alla recente collaborazione con Lady Tarin da BeatTricks e Laurina Paperina (attualmente in corso) da Martina Corbetta. Tutte donne! Come la meravigliosa Lucia Tozzi, capo cultura di Zero, con cui collaboro da sei mesi, intervistando un sacco di personaggi “cool” del mondo dell’arte. E comunque si: ancora oggi dobbiamo battere il pugno sul tavolo per farci ascoltare, nonostante tante cose ormai dipendano da donne. Siamo ancora un po’ indietro.

In dieci anni di carriera hai preso parte a progetti prestigiosi e conosciuto eminenti personalità del settore creativo. Chi è un curatore con cui sogni di lavorare?

Una domanda “tricky”! Mi piacerebbe collaborare con realtà museali solide, sia in Italia -anche se qui di solide ce ne son ben poche-, che all’estero: Stati Uniti e Londra. Di curatori bravi ce ne sono diversi. Penso a Massimiliano Gioni, che stimo da quando a 20 anni ero sua “groopie” e andavo, con la mia amica Fiammetta, ad ascoltare ogni suo incontro, e penso a una persona da poco conosciuta che stimo molto: Alberto Salvadori. Certo, una palestra con una Bakargiev mancherebbe. Ci sono anche realtà giovani, giovanissime, che apprezzo per energia e preparazione, come il gruppo che ha appena fondato la rivista Kabul, molto coscienti del contemporaneo.

Per chiudere il cerchio ci salutiamo con un doppio consiglio su un film e una mostra da vedere

La mostra da non perdere è quella curata da Stefano Arienti a Palazzo Te e il film, assolutamente da vedere -finalmente italiano- è “La pazza gioia” di Paolo Virzì.

Abbiamo finito il nostro caffè e ha smesso di piovere. Saluto Rossella con la promessa di andare a vedere “La pazza gioia” e avendo l’acquolina del prossimo capitolo di Giants in Milan.

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