Land Art: non solo Christo sul Lago d’Iseo. In un ex complesso minerario in Sardegna, architetti progettano interventi site-specific
Mentre sul Lago d’Iseo è partito il conto alla rovescia per l’inaugurazione ufficiale di The Floating Piers, la mega piattaforma galleggiante di Christo che convoglierà nella zona cifre a più zeri, sia in termini di visitatori che di introiti, in questi giorni si parla di Land Art anche in una delle aree più povere e dimenticate d’Italia: il Sulcis Iglesiente. Per essere precisi, siamo sulla litoranea sud-orientale della Sardegna, nell’ex compendio minerario di Nebida e Masua, all’interno del Parco Geominerario di Iglesias, parte del Global Network of Geoparks dell’UNESCO. Aggrappatead una scogliera di scisto rosso e calcare bianco, in mezzo ad una vegetazione generosa, le rovine del vecchio insediamento minerario sono state scelte per la sesta edizione, appena conclusa, di LandWorks, workshop internazionale e interdisciplinare che, dal 2011, richiama in Sardegna architetti, paesaggisti, designer e artisti, per confrontarsi con il paesaggio mediterraneo dell’isola e mettere in piedi, in una decina di giorni, interventi, performance e installazioni site-specific, la cui durata è in genere consegnata alla benevolenza del tempo e degli elementi naturali.
Dal Parco della Maddalena, al complesso minerario disabitato dell’Argentiera, sulla costa nord-ovest della Sardegna, ogni anno i partecipanti – sia studenti che professionisti – sono chiamati ad esplorare il territorio, a indagarne la conformazione geografica, l’identità e la memoria storica; ma anche a rimboccarsi le maniche, a ripulire e rendere accessibili luoghi lasciati all’incuria, per rivelarne il potenziale con interventi precisi, riqualificanti e rispettosi del contesto. Che siano di origine naturale o residui del passaggio dell’uomo, i materiali adoperati per le installazioni sono per lo più recuperati in situ: negli anni, sono stati impiegati pezzi di corteccia, vecchie barche abbandonate, pigne, bottiglie di vetro e pietre.
Con la guida di otto professionisti internazionali, quest’anno i partecipanti al workshop hanno puntellato l’area d’intervento con una serie di installazioni diffuse. Tra queste, il progetto (W)here is Masua?, firmato da Isabella Inti, fondatrice dell’associazione milanese Temporiuso. L’architetto e il suo team si sono focalizzati sulla storia del paese minerario ormai fantasma, sul suo presente e il suo futuro possibile, intervistando i pochi abitanti rimasti, le guardie forestali, persino il prete. Infine hanno collocato delle panchine in tre punti strategici, ognuna marchiata con un QR code, per permettere a chiunque passi da quelle parti di fruire dei risultati della loro indagine. Un museo minerario a cielo aperto è invece il progetto di Christian Phongphit del SoA+D di Bangkok. Mentre il gruppo condotto dall’architetto paesaggista tedesco Stefan Tischer ha realizzato un giardino con arbusti tipici della macchia mediterranea, come l’elicriso e il lentischio; e, sulla spiaggia, con i ciottoli levigati dal mare, ha riprodotto la forma di una particolare imbarcazione chiamata bilancella che, quando la miniera era in funzione, partiva con il suo carico alla volta dell’Isola di San Pietro e di Genova.
Le installazione sono attualmente visitabili da chiunque abbia voglia di avventurarsi (si consigliano scarpe da trekking). Almeno fino a quando la natura, il tempo e l’uomo lo permetteranno.