Daniele Franzella (1978) è un artista palermitano che da anni indirizza la sua ricerca sullo slittamento semantico dell’oggetto artistico. Episodi storici, mediatici, sociali e culturali – ai quali l’uomo contemporaneo è costantemente esposto – sono tradotti dall’artista in sculture, plasmate a partire da una materia sempre diversa nella sua consistenza. Il 31 agosto 2016 ha inaugurato presso gli spazi della Biblioteca Centrale di Düsseldorf Betlehem, il suo ultimo progetto scultoreo. Si configura come un’installazione itinerante che di volta in volta si “appesantisce”/ “arricchisce” di nuovi rimandi e componenti semantiche, identificandosi con il nuovo spazio pronto ad accoglierla. In occasione di questa nuova tappa, abbiamo ripercorso con Franzella l’esperienza artistica che lo ha condotto in Germania.
Nel 2014 hai vinto la prima edizione del premio FAM indetto dalle Fabbriche Chiaramontane per giovani artisti siciliani. Il 2015 si è rivelato un anno intenso, poiché hai trascorso il periodo di residenza vinto presso l’Atelier am Eck di Düsseldorf, che si è concluso con Cronache della città di Ur, mostra curata da Alessandro Pinto.
La mia residenza a Düsseldorf è solo uno dei tanti progetti nati da quello che dapprima era stata solo un’intuizione di Andrea Di Marco e Michael Kortlander e che si è poi trasformato in un rapporto sempre più simbiotico tra Palermo e Düsseldorf con la nascita della Verein DP. Ho potuto fare questa esperienza grazie al premio FAM delle Fabbriche Chiaramontane, vinto con il gruppo scultoreo di circensi Qualcuno non sia solo (2013). Mi è stato messo a disposizione un gastatelier, che per un mese è divenuto il mio studio ed è qui che, insieme ad Alessandro Pinto, è nato un nucleo di lavori che sono diventati poi oggetto della mostra Cronache della città di Ur nel 2015.
La tua è una scultura parlante, che attraverso gli sguardi dei soggetti lascia trapelare la malinconia, il disagio nell’appartenere a un sistema dal quale non si può fuggire. Qualcuno non sia solo (2013) sembra compendiare personali ricordi infantili e allo stesso tempo echeggiare pellicole felliniane come Amarcord (1973). Un circo fittizio in cui ognuno assume un proprio ruolo prestabilito senza possibilità di redenzione.
Qualcuno non sia solo (2013) è una grande metafora figurata. Molto è stato detto su quest’opera e credo che questo derivi dalla sua forte intelligibilità. È vero, c’è un disagio in quei tipi trasognati, ma credo che ci sia bisogno di stare un po’ fuori posto per raccontare qualcosa di interessante. Quel lavoro si è rivelato come un punto di non ritorno. Per un anno ho prodotto molto poco. Si è trattato di un periodo di riflessione, un momento che si sarebbe rivelato, come è poi accaduto, fortemente germinale. Sono interessato alle risposte emotive sollecitate dalle immagini, alla loro potenza narrativa; alla capacità di catalizzare turbamenti e conforto. Non ho mai avuto la consapevolezza di riuscire a costruire una forma di tensione attraverso le mie sculture. Non credo, d’altro canto, all’arte che è fatta di solo istinto. Mi affascinano le manipolazioni semantiche, per esempio. Prendi un oggetto che ha una funzione, una sua riconoscibilità, cambia appena qualcosa e modificherai automaticamente il suo significato. Se traduci in cemento un oggetto che per sua natura dovrebbe sventolare, come una bandiera, chiaramente avrai lavorato depotenziando l’oggetto.
Gesso, cemento, argilla e lattice sono quindi da te plasmati con l’intento di dar vita a opere che puntano tutto sulla comunicazione non verbale.
I miei lavori sono come composizioni di frammenti, di sedimenti, passano attraverso le stratificazioni della memoria. Come accade in un carotaggio, sondo fino in profondità e risalendo porto con me tutti gli strati superiori che si sono accumulati in un determinato periodo e da quelli ricomincio. Il 2015 è stato un anno ricco di esperienze importanti e per un artista un’esperienza si traduce quasi sempre in un’immagine, che non è mai solitaria, ma si costituisce come gruppo di suggestioni. Il fatto di avere avuto a disposizione un atelier, mi ha dato la possibilità di realizzare, nel giro di poche settimane, quattro lavori confluiti poi nella mostra di fine residenza Cronache della città di Ur. Un arazzo di lattice, posa fotografica di circa 400 soldati che si configurava quasi come un’architettura umana; Un tricolore di cemento, un acquerello di una casa/trincea con le pareti realizzate con sacchi di iuta su un carrello semovente, e infine un tappeto di triboli , gli antesignani delle mine anti-uomo, posto sotto il tricolore. Sono elementi forti che non mirano all’esaltazione di una iconografia bellica. Mi propongo piuttosto di comprendere da dove parta l’idea di conflitto e di pericolo, di espansione e di patria, di onore e di disonore. Quello che m’interessa è la tensione psicologica o la straniamento che viene a crearsi anche con piccoli slittamenti semantici, interesse che ritornava già nei gruppi scultorei passati.
La ricerca che porti avanti s’incentra comunqure sulla scultura, di cui la Sicilia è degna testimone.
Provengo da una famiglia di artigiani, abilissimi modellatori. La mia predilezione per la scultura forse nasce anche da questo. Tuttavia non mi limito al gesso o all’argilla, perché ai materiali preferisco sempre l’esigenza narrativa e io vivo in un luogo dove raccontare storie è un fatto esistenziale. Come siciliano il mio rapporto con la scultura è costellato di complessi di inferiorità che coltivo sotto la pesantezza di nomi come Serpotta, Civiletti o Ximenes. Ma è anche vero che essere oggi uno scultore in questo luogo può significare agire in uno spazio parallelo a quello della grande figurazione siciliana. Penso anche agli studenti dell’Accademia di Palermo, i cui lavori spesso tendono ad affrancarsi da questa cultura figurativa. Credo che prediligere un oggetto di origine industriale, piuttosto che un pezzo di argilla da modellare, derivi dalla libertà che un artista può concedersi.
Il tuo ultimo progetto Betlehem è stato per la prima volta presentato lo scorso 6 gennaio 2016 in uno spazio espositivo inusuale: il Johanneskirche Stadtkirche di Düsseldorf, chiesa che da anni ospita mostre ed eventi culturali. L’intento di questo intervento – che oggi è ospitato in un altro spazio simbolo della città tedesca, la Biblioteca Centrale di Düsseldorf – è di sensibilizzare sul tema del depotenziamento semantico e sopratutto di esplorare spazi espositivi altri.
A Dicembre 2015 ero stato invitato una seconda volta a Düsseldorf, con l’obiettivo di realizzare una scultura sul tema della natività. È nato così Betlehem, progetto incentrato sulla figura di un asino, animale immancabile nella convenzionale natività e compagno ricorrente nel lavoro e negli spostamenti dell’uomo. Questa bestia da soma veicola un racconto ricorrente come la storia dell’esodo, dello spostamento e soprattutto della attuale condizione del rifugiato. Nell’installazione di gennaio l’asino era stato posto lungo la navata centrale della chiesa, rivolto verso il Cristo e sulla sua groppa portava un carico come fosse una montagna di dramma. I sacchi di iuta, le armi, gli oggetti domestici che ho posto sopra la scultura raccontano la storia di qualcuno che fugge o è diretto verso un conflitto. Dietro a quei segni terribili, dietro l’aspetto terrificante di un animale ricoperto di catrame, c’è un’opera carica d’amore. L’obiettivo che ci si è proposti con Verein DP è stato quello di far realmente spostare l’ animale. La scultura è stata pensata per spazi non convenzionali, un luogo autorevole come una chiesa o un’istutizione publica come una biblioteca appunto. Seguendo questo filone, la scultura sarà ospitata in altri spazi di potere come l’ambasciata italiana, e il palazzo della Borsa. Quella della Biblioteca Centrale è quindi solo una delle diverse tappe di consapevolezza che continuerò ad intraprendere in Germania.