Abbiamo intervistato lo scultore altoatesino Lois Anvidalfarei, uomo e artista di grande umiltà, che ha imparato a vivere di arte ai margini delle grandi metropoli mercato-centriche, in una comunità ancora fortemente influenzata dai dogmi religiosi.
Una lunga chiacchierata sull’arte, la chiesa, la vita e i valori della terra, che ci restituisce una encomiabile lezione. Citando il di lui amico Philippe Daverio, esistono altre culture, nascoste tra i monti sperduti al di fuori del sistema dell’arte internazionale, grazie alle quali l’arte può ancora stupire e conquistarsi spazi sorprendenti di creatività, senza dover per forza provocare o sollecitare interesse, e senza il bisogno della grancassa di eventi gonfiati.
M.B.: Da dove deriva la sua passione per la scultura? Quanto hanno influito le sue origini sul suo percorso artistico? Inoltre, c’è qualcosa che l’ha influenzata nella sua decisione di dedicarsi all’arte?
L.A.: Da queste parti l’arte è un’attività tutt’altro che estranea, anzi è insita nelle nostre vite quotidiane e tante persone nate qui in montagna lavorano da sempre il legno e scolpiscono. I miei zii erano scultori del legno, e mio zio in particolare era anche pittore: dipingeva figure di bambini e ci chiedeva spesso di posare come modelli, infatti quando ho iniziato a posare io avevo 5 o 6 anni. Poi, sempre da bambino ho cominciato a disegnare insieme a lui, e all’età di 7 anni si è fatto strada in me il desiderio di dedicarmi alla scultura. In seguito ho cambiato idea varie volte, volevo fare il contadino, poi il prete, ma alla fine sono tornato all’idea di partenza. Logicamente, dopo un’infanzia del genere, mi sono iscritto al liceo in Val Gardena, che una volta si chiamava Istituto Statale d’Arte. Per me fu un’esperienza molto sofferta, a causa dell’enorme varietà di offerta proveniente dall’artigianato professionale e artistico locale, dai numerosi artisti e scultori professionisti in circolazione, dai pantografi e così via. Ancora oggi manca una vera e propria Accademia nel Tirolo, in genere si va a studiare all’estero e poi si torna qui per lavorare: così è stato anche per me, che ho proseguito la mia formazione presso l’Accademia di belle arti di Vienna, dopo la quale sono tornato in Val Badia iniziando a lavorare in proprio.
M.B.: In questi ultimi anni l’Alto Adige ha dimostrato un consistente fermento artistico, sempre più vivo e radicato…
L.A.: Si, per quel che riguarda il territorio nel quale vivo, le Dolomiti e in particolare le valli ladine, questo fermento è aumentato soprattutto grazie alla Biennale Gherdëina che dal 2008 si svolge ogni due anni a Ortisei, a cavallo tra luglio e settembre, e che quest’anno inaugurerà la sua 5° edizione. Poi c’è la cosiddetta “Trienala Ladina”, manifestazione nata nel 2004 e che ha luogo tra settembre e giugno nel Museo Ladino del Ciastel de Tor, a San Martino in Badia. Prima si trattava più che altro di arte puramente artigianale, prodotta su scala locale per il turismo, ma ultimamente negli ultimi 10-20 anni si è creato un fermento molto interessante a livello di mercato, di eventi, di manifestazioni culturali e di affluenza di persone, sul territorio. Trovo tutto questo molto positivo, perché penso che raramente un territorio così piccolo a livello di abitanti, ventimila circa, si riveli così denso e ricco di opportunità nella specializzazione professionale dell’arte e dell’artigianato ma anche e soprattutto nello sviluppo di un gusto ed una sensibilità estetica.
M.B.: All’interno della sua produzione artistica, quanto è presente la religione?
L.A.: La religione è un’altra grande tematica che appartiene a questi luoghi poiché quando ero bambino quasi tutti all’interno della mia comunità frequentavano la chiesa, e noi stessi siamo cresciuti con un forte senso religioso, dunque la spiritualità emerge nelle mie opere fin dalla mia infanzia. Poi, chiaramente si intraprendono altre direzioni e le tematiche si differenziano, ma il punto di partenza per me è stato quello. Personalmente mi è sempre piaciuto lavorare con le istituzioni religiose: a Innsbruck per esempio sono presenti quattro mie opere sulla facciata della Cappella di San Giorgio presso il Consiglio Regionale del Tirolo. Inoltre, spesso realizzo anche altari e adattamenti liturgici per le chiese. Purtroppo però, molte volte nel mio lavoro ho dovuto affrontare dei problemi dovuti al delicato rapporto tra arte e chiesa, e le mie opere sono state al centro di accese polemiche: l’ultimo caso è stato quello dell’“Ecce Homo”, opera installata di fronte al Monastero Wilten di Innsbruck, che una notte è stata manomessa da alcuni vandali i quali hanno tagliato le corde con cui erano appesi i corpi in bronzo, per fortuna senza recare danni eccessivi al materiale.
M.B.: Come ha reagito alle polemiche ricevute dall’ambiente cattolico?
L.A.: Ho sempre riscontrato polemiche fin dagli inizi, con la realizzazione della mia prima scultura, datata 1989: “Crocefisso” per la Sala dei Giovani, che fu immediatamente contestata. Da allora sono passati quasi trent’anni, eppure ancora oggi mi capita di avere gli stessi problemi. Un altro episodio che ricordo è quello accaduto otto anni fa alla Biennale Gherdëina, quando una notte alcuni uomini ribaltarono le mie sculture lasciandole a giacere per terra. Dopo il taglio delle corde dell’”Ecce Homo” a Innsbruck, riflettei molto sull’accaduto e compresi che queste persone non intendevano attuare un semplice atto vandalico mirato a danneggiare le opere, come frutto di banale vigliaccheria, ma al contrario avevano voluto compiere un gesto simbolico, di negazione dell’opera.
Le sculture pesavano circa 200 kg l’una, dunque gli uomini dovevano essere almeno in cinque e di età adulta, magari anche padri di famiglia, che si sono esposti notevolmente assumendosi anche dei grossi rischi perché di notte passano le ronde e avrebbero potuto essere visti. E personalmente, per quanto possa essere toccato dalla vicenda, ho apprezzato il gesto, perché mi ha fatto capire quanto la scultura sia ancora oggi viva e potente nel comunicare qualcosa, e quanto può smuovere gli animi e mettere in discussione qualcosa di radicato nella coscienza del pubblico. Arturo Martini nella sua opera “Scultura lingua morta” parla di una profonda crisi culturale, ma quando succedono cose come questa, si comprende che invece la scultura è più viva che mai, che un’opera d’arte è stata violata in quanto ha smosso qualcosa. Comunque, trovo tutto questo davvero curioso se penso che alla Biennale Gherdëina di quest’anno sarà esposto un Crocefisso nudo di Nicola Samorì nella chiesa di Sant’Antonio a Ortisei. Ciò è probabilmente dovuto alla mentalità aperta del nuovo parroco, subentrato da qualche anno al parroco precedente che era molto meno tollerante e aveva sollevato forti polemiche sulle opere più esplicite mie e di altri artisti presenti in Biennale, arrivando persino a ricattarci di annullare la tradizionale processione se non avessimo ritirato le sculture, il che naturalmente avrebbe apportato un torto non solo a noi, ma anche a tutti gli altri: negare ad un’intera comunità una manifestazione tradizionale popolare che si svolge da secoli e che le appartiene culturalmente, per punire il gusto estetico personale di un gruppo ristretto di persone è una cosa di una gravità inaudita. Perciò penso fermamente che alla Biennale di quest’anno si stia affrontando un enorme cambiamento in fatto di arte e di gusto, qualcosa di estremamente positivo che dimostra grande coraggio e libertà mentale, e che si riflette anche a livello locale nei paesi minori, e non solo nelle grandi città.
E’ un processo che richiede lungo tempo però: basti pensare che qualche anno fa ricevetti la commissione per un altare dalla Commissione Liturgica di Bressanone, a cui lavorai tantissimo e con grande passione, soprattutto per il taglio innovativo che avrebbe assunto, ma poi per idee contrarie del vescovo l’altare non si fece più. Dunque, molto dipende da chi gestisce l’ambiente nel particolare, non nell’universale. Non è nemmeno un discorso di età, ma di esperienza e di educazione, di apertura mentale, ma soprattutto di etichette, di apparenza. Mi dispiacque per quell’altare, però quello che conta per me è dare un segnale positivo, smuovere qualcosa. E in questo senso apprezzo molto che oltre alle polemiche, spesso si creino anche importanti dibattiti: quando scomposero l’”Ecce Homo” a Innsbruck fu sorprendente il comportamento dell’abate di Wilten, il quale avendo deciso di cominciare la sua usuale messa all’esterno della chiesa, radunando i fedeli intorno alle mie sculture riversate per terra ed integrandola con un bellissimo dibattito sull’arte e sulla cultura ricco di spunti interessanti. Per me fu un’emozione indescrivibile.
M.B.: Lei lavora di più con i privati o con le commissioni pubbliche? E nell’ambito del privato, che opinione ha delle gallerie italiane e di quelle invece straniere?
L.A.: Oltre alle commissioni pubbliche, lavoro tantissimo nel privato con le fiere e con le gallerie, che hanno già un proprio giro di clienti: tra le italiane, c’è la galleria Alessandro Casciaro Art Gallery di Bolzano che mi rappresenta. All’estero invece, lavoro ormai da anni con la Galleria Maier di Innsbruck, e ora sono attivo anche in Svizzera con la galleria Art’In Gstaad, con la quale ho inaugurato una personale proprio il 5 luglio. In tutti questi anni ho potuto notare che in Italia è fondamentale l’estetica, mentre in altri paesi soprattutto del nord come Austria e Germania c’è un gusto particolare, diffuso anche tra i collezionisti, più crudo e favorevole a correnti come l’espressionismo austriaco. In Italia si dà forse meno attenzione alla tecnica ma più all’estetica, specialmente nell’ambito fieristico che è considerato una tappa obbligata per chi fa arte ma soprattutto per chi commercia. E infatti la mia arte è apprezzata più nel nord Europa e molto meno al sud, dove spesso viene considerata “brutta” poiché la superficie delle opere è irregolare e in alcune sculture il materiale sembra lasciato allo stato grezzo. Io ho potuto presentare le mie sculture alla GAM di Bologna grazie all’intermediazione di Peter Weiermair, direttore della Galleria di Arte Moderna di Bologna, che essendo di origini tedesche è quindi partecipe delle tendenze che circolano nell’ambiente italiano ma sempre con un occhio differente e avanguardistico. Grazie ai miei sei anni trascorsi a Vienna ho capito che lì si percepisce una grandissima differenza rispetto alle grandi città italiane: correnti artistiche così radicali come l’Espressionismo non sarebbero mai state possibili a Milano e a Roma nel Novecento, e difficilmente artisti come Schiele sarebbero stati accettati. Noi abbiamo avuto Marino Marini, che però rappresentava già un gusto abbastanza nordico e orientato all’arte europea. Invece Francesco Messina, Giacomo Manzù e altri scultori della generazione prima di me furono esteticamente più facili da digerire rispetto agli artisti dell’arte viennese e puramente nordica. A proposito, studiando a Vienna ho conosciuto l’opera dello scultore tedesco Wilhelm Lehmbruck, della quale a suo tempo mi sono innamorato e che sicuramente mi ha influenzato.
M.B.: Parliamo del processo creativo. Chi sono i suoi modelli? Quali sono i materiali che utilizza maggiormente e come avviene la scelta dei titoli?
L.A.: Generalmente utilizzo quattro o cinque persone che conosco da anni che posano come modelli, come mio cugino e amici che vivono qui nei pressi, perché devono essere pronti a raggiungermi per posare quando ho bisogno. Io ho un legame molto forte e diretto con l’essere umano, e una sorta di passione sfrenata per il corpo umano, in primis il mio corpo che amo studiare, e poi anche quello degli altri. Persino i soggetti a tema religioso, come “Ecce Homo” oppure “Caino e Abele”, ad un primo stadio rimangono figure umane pure, intese come entità carnali e terrene, uomini. I materiali che utilizzo fin dalle origini sono il legno e la pietra. In seguito è arrivato il gesso, un materiale molto delicato ma di consistenza straordinaria, e che col tempo ho scoperto essere il mio strumento ideale. Alcune sculture sono formate da gruppi di più personaggi: “Caino e Abele” racconta la storia di un amore fraterno segnato da un tragico epilogo. Generalmente però, nella prima fase di creazione lavoro con i modelli e plasmo il materiale, mentre in una seconda fase contemplo il risultato ed elaboro un titolo che potrebbe sposarsi con la scena rappresentata. E’ così che nascono le mie opere.
M.B.: Philippe Daverio ha pubblicato un libro su di lei: come siete entrati in contatto? Esiste un catalogo generale delle sue opere?
L.A.: Complessivamente esistono due cataloghi sulle mie opere: quello curato da Peter Weiermair nel 2004, che oltre alle sculture contiene anche i miei disegni a matita, e quello realizzato da Philippe Daverio e pubblicato da Skirà nel 2013 per la mia esposizione “Conditio Humana” presentata al MACRO di Roma. Philippe Daverio venne in Trentino Alto Adige nel 2008 per visitare la mostra inaugurata quell’anno al Museion di Bolzano “Sguardo periferico e corpo collettivo”, su cui avrebbe basato una puntata di Passepartout. In quella puntata parlò anche di me e delle mie sculture, che aveva scoperto proprio durante quel viaggio. Da allora siamo rimasti in contatto ed è nata l’idea di fare un progetto editoriale insieme. Daverio è una persona molto colta e come me anch’egli è molto legato al territorio, alla valorizzazione delle tradizioni e delle culture locali. Ora come ora, sto lavorando ad un nuovo progetto multidisciplinare a Merano che include scultura, pittura e poesia, in collaborazione con mia moglie che è poetessa, e con un mio amico pittore, Gotthard Bonell, con il quale mi trovo in grande sintonia. Bonell ed io ci conoscevamo già, ma solo in seguito abbiamo scoperto che le nostre arti erano comunicanti: nacque così a Cavalese il nostro primo progetto condiviso, in occasione della mostra “Immagine terrestre” in cui le mie sculture entravano in armonioso dialogo con le pitture di Bonell.
M.B.: Quindi, in fondo lei è un artista aperto alla multidisciplinarietà: scultura, disegno, pittura, poesia…
L.A.: Certo, come dicevo prima, oltre alla scultura l’altra mia grande passione è il disegno, inteso non solo come fase preparatoria alle mie opere, ma anche come disciplina artistica dotata di una sua dignità. Prima di realizzare le opere, creo bozzetti e studi col modello davanti: non ho mai realizzato un disegno senza un modello di riferimento da studiare. Ma soprattutto, amo realizzare disegni a matita, indipendentemente dalle sculture, sempre studiando il corpo umano e le persone, e addirittura succede che la scultura mi serva da studio per il disegno.
M.B.: Trovo l’utilizzo delle impalcature un dettaglio estremamente affascinante. Come è nata l’idea? E come gestisce i modelli per le sculture “ingabbiate”?
L.A.: Il significato primario è senza dubbio quello della condizione di ingabbiamento, di luogo di prigionia fisica e spirituale dell’essere umano: proprio da questa riflessione nasce il grande gruppo “Conditio Humana”, opera composta in totale da cinque corpi e conservata qui nella mia tenuta di Ciaminades. L’idea delle impalcature è nata entro questi stessi muri nel periodo in cui ho realizzato il mio nuovo laboratorio: a quel tempo avevo ancora un laboratorio vecchio e dovetti assistere i muratori per tutta l’estate mentre realizzavano quello nuovo. Lavorando con gli operai mi sono reso conto di quanta creatività ci fosse nei ponteggi: puoi spostare i tubi, modificare i livelli, la struttura si evolve continuamente. E così me ne sono innamorato, e ho preso la decisione di integrarli nelle mie opere. Un altro aspetto che mi aveva colpito è che nel loro essere strumento di lavoro, le impalcature sono strutture molto precise: durante la fusione il bronzo subisce un ritiro dell’1,7% e rimane quindi più sottile del gesso, ma grazie a questo espediente ho potuto trovare un modo per adattare perfettamente lo spazio circostante alla materia dell’opera. Da quel momento, ho cominciato a chiedere ai miei modelli di introdursi fisicamente all’interno di strutture provvisorie che costruisco appositamente per loro, facendoli adagiare sui tubi, e quindi realizzo le sculture all’interno di ulteriori impalcature finali. Questo mio modo di lavorare è comunque abbastanza recente, infatti l’opera “Conditio Humana” terminata non si trova ancora in nessuna pubblicazione.
M.B.: “NAUZ”, l’ultimo progetto cinematografico a cui ha partecipato, mi ha estremamente colpito per il forte accostamento tra le sue sculture e le scene della macellazione degli animali, e per la colonna sonora di grande impatto che rievoca la solennità dei canti liturgici. Come è nato questo progetto?
L.A.: Il film “NAUZ” è nato grazie alla poesia. Nel 2012 mia moglie Roberta compose un ciclo di poesie in ladino che parlano di tematiche legate ai lavori manuali, tra cui appunto la macellazione, e le fece pubblicare insieme a sue fotografie in un libro edito da Folio Editore. La parola “Nauz” che dà il titolo alla raccolta, significa “trògolo” in lingua ladina, cioè la mangiatoia dei maiali. Il libro contiene le poesie in ladino con la traduzione in tedesco, e ha riscosso molto successo. Successivamente, Eduard Demetz, un musicista originario della Val Gardena che vive a Bolzano, ricevette una commissione per una composizione dal gruppo Paul Hofhaymer Gesellschaft di Salisburgo e chiese a Roberta di poter utilizzare alcune delle sue poesie. Fu così che nacquero la parte letteraria e la parte musicale. Infine, di recente il regista e mio amico Jochen Unterhofer, che conosceva ed apprezzava già le poesie di Roberta, ha potuto ascoltare la musica di Demetz e ha immediatamente pensato ad un possibile progetto cinematografico. Il film dura in totale 36 minuti e racchiude in sé tre arti: la poesia, la musica e l’immagine, dove la parte visiva raccoglie scene autentiche di vita quotidiana presentate sotto forma di documentario. Niente di ciò che viene mostrato è inventato o architettato a tavolino, anzi ogni cosa è parte di un grande processo che ha luogo normalmente qui nella mia masseria: nel laboratorio infatti non c’è solo la creazione artistica, ma lo stesso diventa macelleria, ospita le riprese cinematografiche e più avanti la proiezione finale che ne risulta, e infine luogo dove si fa festa tutti insieme.
Nel film si intravedono le mie stesse sculture sul fondo perché sono tutte nate in questo luogo, e di questo fanno intrinsecamente parte. In definitiva, si parla di un grande docufilm che svela un processo autentico e spontaneo portato avanti a più mani in un determinato luogo della realtà, anziché essere estrapolato ed installato in un museo o in un vago spazio pubblico privo di riferimenti. E’ una grande performance di cui è la vita che stimola alla produzione dell’arte e l’arte stessa in ogni sua sfumatura si inchina alla maestosità della realtà nuda e cruda.