Icona del Black Art Movement, Betye Saar (Los Angeles, 1926) artista afroamericana, ha recentemente rivoluzionato con la sua mostra Uneasy Dancer, uno dei vasti ambienti della Fondazione Prada di Milano, meta indiscussa per i voraci amanti dell’arte contemporanea.
L’antologica, curata da Elvira Dyangani Ose, è una dichiarazione d’intenti che comprende più di mezzo secolo di pratica artistica, ovvero circa ottanta opere che vanno dal 1966 al 2016, in perfetto dialogo tra loro. Come seguendo la coreografia di una danza sconosciuta, passo dopo passo, siamo liberamente condotti “in una spirale creativa dove i concetti di passaggio, incontro, morte e rinascita si uniscono ai temi fondamentali di razza e di genere”.
Installazioni, assemblaggi, collage, sculture… È invasione pura di oggetti raccolti per strada, in mercatini dell’usato, o anche dalla propria vita quotidiana, riassemblati e ridipinti secondo la fantasia dall’artista, così da ridargli nuova vita, nuovo significato. In molti casi si tratta di scatole in legno, lasciate aperte, già svelate del loro prezioso tesoro, una sorta di boite-en-valise duchampiana: mani, cuori, foglie, occhi, uccelli, stelle, fotografie, orologi. Quest’ultimi, oggetti-feticcio che si ripetono ossessivamente da un’opera all’altra, sono un codice figurativo quasi mistico, evidente segno di un legame sotterraneo che l’artista prova per essi.
In effetti, elementi fondanti della sua visione artistica sono sempre stati il metafisico, lo spirituale e l’inconscio. La sua arte ha sempre avuto a che fare più con il sentire, con l’intuizione, che con la razionalità. Semmai all’opposto, la creatività ha spaziato senza confini, superando anche quelli che separano la sua vita dalla sua arte, perché i due piani si sono spesso sovrapposti.
Il culto del residuo, probabilmente lo deve alla visione delle Watts Towers di Simon Rodia (torri realizzate secondo un processo casuale e con i materiali più disparati) situate nel quartiere periferico di Los Angeles, quando lei era poco più che una bambina, ed ai suoi occhi curiosi, esse apparivano davvero come delle architetture fantastiche. Crescendo, intuisce dunque le potenzialità insite nei materiali di scarto, il loro valore nascosto, prende coscienza del fatto che possono essere recuperati. La costruzione delle torri, si è protratta per circa 33 anni, e ancora oggi costituiscono una delle principali attrazioni della città.
La sua arte attraversa però anche componenti storiche, ideologiche, politiche. Utilizza immagini fotografiche, ma anche assemblaggi di più oggetti contenuti all’interno di gabbiette di metallo, per ricordare vicende negate o distorte della razza afro-americana, la condizione di schiavitù e il servilismo al quale era relegata; l’artista, guidata da un forte spirito di protesta, porta avanti da sempre una critica sociale nei confronti degli stereotipi razziali e sessisti.
I suoi mirabilia hanno “più a che fare con l’evoluzione che non con la rivoluzione, con la trasformazione delle coscienze e del modo di vedere i neri, non più attraverso immagini caricaturali o negative, ma come esseri umani’’. Protesta vera iniziata con una delle sue opere ormai più famose: The liberation of aunt Jemima (1972). Immagine svilente e caricaturale della donna di colore grassa, dai grandi labbroni carnosi, fazzoletto annodato in testa e un finto sorriso, usato sin dalla fine dell’Ottocento da una nota marca di prodotti per la colazione americana, come i pancakes. L’opera voleva allora renderla libera Jemima, libera da quella visione negativa e darle finalmente potere.
Anche The Alpha and the Omega (2013-2016), ha con sé il ricordo della schiavitù, c’è quella barca appesa al soffitto di questa siderale stanza azzurra, a sottolineare il ricordo della migrazione, del passaggio da un continente all’altro. Un viaggio che può ridefinirsi anche sotto un aspetto più universale, alludere ad un viaggio iniziatico e all’esperienza della vita umana, che ha un principio ed una fine.
Betye Saar è l’artista che cavalca tra ritualità e misticismo, storie quotidiane e immaginarie, denuncia sociale e condizione autobiografica. La tecnica dell’assemblaggio viene usata dunque come ponte stesso, che abbraccia religioni e tradizioni cultuali più differenti, ma in definitiva la vita stessa, l’individuo, la famiglia, la società.
Informazioni utili
BETYE SAAR: UNEASY DANCER
15 settembre 2016 – 7 gennaio 2017
Fondazione Prada Milano
Largo Isarco 2
20139 Milano