Il titolo di Repubblica sintetizza la questione che vorremmo affrontare, pur consapevoli dei nostri limiti: “Bologna alla ricerca del glamour perduto, ecco come sarà la nuova Arte Fiera di Angela Vettese“.
Ricercando il perduto glamour per l’edizione n. 41 che si svolge dal 27 al 30 gennaio 2017, aggiungiamo le considerazioni – da comunicato stampa – proprio della Vettese, curatrice spigliata:
“L’analisi attenta e severa degli esperti ha portato alla scelta di una edizione della fiera più compatta, con un numero minore di partecipanti rispetto al passato nonostante l’aumento delle domande di ammissione. Arte Fiera intende proporsi come un luogo di esposizione e vendita di arte moderna e contemporanea e al contempo come sede di proposta e di riflessione su temi e linguaggi di stringente attualità“.
In sostanza, il glamour si ritroverebbe diminuendo il numero degli espositori e selezionandoli con più attenzione. La cosa non fa una piega. O non farebbe una piega.
Molti valenti galleristi che ancora prediligono la pittura o la figurazione sono già normalmente esclusi dalla fiera di Bologna che, tra le importanti in Italia, restava una delle più accessibili per chi non si è piegato allo sgunz e al concettuale. Quest’anno ci giunge però voce (voci off records) che altri galleristi per intervenire sono stati fortemente consigliati nelle loro scelte, perfino nello scelte cromatiche. Se proprio si deve portare un quadro che almeno sia monocromo o bianco. E ai bianchi meglio accostare dei medi o dei neri.
Questo viene fatto, sembra di capire, nel nome di “una riflessione su temi e linguaggi di stringente attualità”, una frase fatta che non spiega in cosa consista la “stringente attualità” né quali siano i temi e i linguaggi appunto di urgente, pressante, impellente attualità.
Non vorremmo che dietro non ci fosse la giusta e sacrosanta libertà di scelta del direttore che sempre più spesso è un curatore, bensì (come in altre fiere cool) una sorta di super ideologia curatoriale che prevede l’egemonia di alcuni linguaggi a scapito di altri. Quasi che per essere artisti contemporanei non sia sufficiente esser vivi e dunque contemporanei, ma sia necessario per forza adeguarsi a quel coté di ironia, dissacrazione, insensatezza, scatologia, pornografia… che contraddistingue l’arte up to date.
Così concepite, molte fiere d’arte non sono più luoghi dell’esposizione libera, semmai luoghi dell’indottrinamento. E ancor più dei musei dove le tensioni culturali e curatoriali sono almeno palesi, le fiere – nascondendo l’intento pedagogico dietro l’anodina finalità commerciale – rischiano di generare subdolamente nel pubblico falsi miti, un’idea distorta dell’arte contemporanea, quasi che le uniche cose che funzionano sul mercato siano quelle, quasi che le uniche cose che le persone vogliano acquistare siano quelle.
Quando è morto David Bowie che pure possiamo considerare un buon cantante pop e che certuni considerano, addirittura, un’icona, la Vettese – ci sembra di ricordare – su Facebook scrisse: “Bowie è stato un testimone ribelle ma lucido dei valori dell’Occidente: ha anticipato l’ampliamento dello spettro delle possibili identità sessuali, la cultura lgbtq, l’idea di corpo come superficie da rendere significante con il look, l’autoritratto travestito, la commistione di corpo organico e cyborg…”.
La cosa, soprattutto per l’enfasi e la roboante retorica, a rileggerla fa sorridere e credo ne sorriderebbe anche la Vettesse se si togliesse per un attimo il cipiglio di curator impegnato.
Bowie sarebbe dunque un testimone lucido dei valori dell’Occidente e i valori dell’Occidente sarebbero, tanto per dire, “l’autoritratto travestito”… ah forse sono questi i temi di “stringente attualità”.