Dal 1° dicembre 2016 al 13 gennaio 2017 gli spazi della Fondazione VOLUME! di Roma presentano DUO, un intervento di scultura ambientale realizzato dall’artista tedesco Felix Schramm, a cura di Davide Sarchioni e della Fondazione VOLUME!. Con un’azione irruenta, l’artista forza le pareti dello spazio che perde così la funzione di contenitore divenendo esso stesso contenuto. Schegge di legno e frammenti di cartongesso attraversano lo spazio e si intersecano con gli elementi architettonici, con l’obiettivo di abbattere ogni confine visivo e suggerire nuove possibilità di lettura.
La tua formazione è innanzitutto scultorea, negli anni ti sei sempre accostato alla scultura in senso tradizionale, come materia da modellare. Tuttavia, i tuoi interventi di scultura ambientale presuppongono un nuovo modo di relazionarti con la materia e lo spazio. Come si relaziona questo tuo approccio con la scultura classica?
Ho sempre concepito la scultura come una questione che riguardava innanzitutto lo spazio che la circonda. Ho capito molto presto che la scultura e lo spazio non sono due entità autonome ma due elementi che dipendono l’uno dall’altro, interagendo continuamente. Non è possibile concepire una scultura senza riflettere sugli elementi che entrano in relazione con essa: la luce, lo spazio e il punto di vista visivo del fruitore. Tre elementi che influenzano in modo determinante il risultato formale finale.
Nel tuo percorso artistico, quali sono stati i passaggi formali che ti hanno condotto a sviluppare questa tipologia di intervento ambientale che tu chiami Spatial Intersection?
Ho iniziato a lavorare con lo spazio nel 1996, sperimentando diverse soluzioni formali. Nel 2002 ho realizzato la mia prima Spatial Intersection. Per ottenere questo risultato ho lavorato per due anni in studio concentrandomi sul processo, sperimentando con i materiali per raggiungere la resa formale che ricercavo. Ciò che mi interessava era la possibilità di instaurare un dialogo tra scultura, architettura e spazio, coinvolgendo il muro stesso. Questo principio mi guidava già da tempo, ricercavo inconsciamente questa interazione. Ero spesso attratto dalle situazioni intermedie, dai passaggi visuali, da aperture e scorci che si aprivano sul nuovo.
Raccontaci un episodio chiave che ti ha condotto a questo tipo di ricerca
Ci sono stati diversi momenti chiave che mi hanno portato a lavorare in questa direzione. Uno di questi è stato sicuramente quando, durante un periodo di studio in Giappone, ho avuto modo di conoscere un nuovo concetto di struttura e di spazio, molto diverso da quello occidentale. Durante questo soggiorno, una mattina, mentre passeggiavo, sono stato attratto da un pezzo di un modello architettonico piegato e gettato nell’immondizia. Questo frammento presentava al suo interno una torsione, come una frattura, che suggeriva una forma al limite tra l’architettura e le fattezze umane. Ne ero così attratto che l’ho raccolto e l’ho studiato a lungo.
Qual è il tuo rapporto con l’architettura e lo spazio fisico?
Ho sempre pensato all’architettura come ad un confine, un modo di organizzare ma anche delimitare lo spazio; se trovi il modo di aprirla puoi andare oltre, allargare questo confine ma mai all’infinito perché, quando lavori con la materia, ogni confine che superi ne presuppone un altro. Questa idea esercitava su di me un così grande fascino che, desideroso di sfidare la materia, un giorno ho trasformato il muro stesso in scultura.
Nelle Spatial Intersection non è solo la scultura, in quanto entità finita, a lavorare con l’ambiente ma è l’ambiente stesso ad essere continuamente modificato per ottenere la scultura, forma che interagisce irrimediabilmente con ciò da cui scaturisce. L’oggetto non può più essere separato dal contesto. Quando ti trovi di fronte ad uno spazio nuovo, come ti relazioni con esso?
Innanzitutto, mi muovo nello spazio come uno scultore, pensando sempre al mio lavoro da un punto di vista tridimensionale. Ogni spazio riserva molte possibilità, che corrispondono a diverse soluzioni formali. Dopo aver osservato lo spazio, traduco le mie suggestioni in studio, lavorando con dei modelli, combinando schegge e frammenti di cartongesso. Il modello mi permette di lavorare in modo immediato ed intuitivo, senza sottostare alle tante regole scultoree quali le questioni statiche, il peso, ecc..sono libero di disegnare in senso tridimensionale tutto ciò che ho in mente, senza freni ne vincoli tecnici. Sono libero di essere radicale. Tuttavia, il modello rappresenta solo il punto di partenza perché, quando agisco sullo spazio reale, mi trovo spesso a dover modificare i criteri sviluppati in piccola scala per rispondere alle domande che lo spazio stesso mi pone.
I tuoi interventi ambientali sono costruiti con legno, colle ma soprattutto cartongesso. Che valenza assume questo materiale nel tuo lavoro?
Il cartongesso è un materiale per me molto interessante perché ha poco carattere, è un materiale che si piega ad ogni esigenza. Dal punto di vista costruttivo è il materiale meno architettonico che esista. E’ un materiale che puoi trasformare. Strati sottili che, in base al modo in cui lo si utilizza, possono assumere un aspetto lineare, freddo e tagliente oppure morbido e duttile.
Spatial Intersection è attraversamento di qualcosa di esistente per svelare qualcosa di celato e dunque suggerire nuovi punti di vista. La rottura di un equilibrio per generarne uno nuovo. Quando si interviene sull’architettura di uno spazio aprendo un muro, si modifica la percezione dello stesso svelando la sua struttura portante, ciò che è funzionale di per sé e dunque autoreferenziale. L’apertura rivela ciò che l’architettura cela. Quali sono le reazioni dei visitatori?
Il mio lavoro richiede sempre una vicinanza, fisica e concettuale: un oggetto che entra in un altro o vi si accosta interagendovi, due punti di vista che si incontrano ecc… La questione interessante è poter osservare un lavoro attraverso un altro lavoro, guardare all’opera attraverso un’apertura, un varco che ti fa intravedere una forma, suggerendo nuove possibilità visive. E’ come una finestra sul mondo. Lo spettatore non vede tutto ma percepisce che si trova dinanzi ad una struttura. Grazie a questa rivelazione, molti riflettono in modo molto distinto sulla questione spaziale, giungendo alla riflessione concettuale.
L’arte è il prodotto dell’uomo e come tale è un artificio, una messa in scena. Nelle tue opere, dietro all’apparente casualità dell’azione irruenta, si nasconde una forte consapevolezza che si manifesta in un grande controllo del processo formale, a cominciare dalla fase progettuale. Nel tuo lavoro è presente una componente legata alla messa in scena?
Certo, il mio lavoro è tutta una messa in scena! Se si accetta l’idea che l’arte e dunque l’artista metta le cose in scena, allora questo concetto, oltre ad essere molto liberatorio, dona all’artista la possibilità di riflettere sul concetto stesso di messa in scena, studiarla per farla emergere e dunque rappresentarla allo spettatore. Mettere in scena la messa in scena. Suggerire allo spettatore di trovarsi di fronte ad un qualcosa che non è reale per esercitarne la consapevolezza e condurlo a riflettere sul fatto che si tratta solo di una possibilità tra tante.
Negli anni ti sei confrontato con diverse tipologie di spazi, alcuni molto connotati esteticamente, altri più essenziali, minimali. Come hai lavorato nello spazio di Fondazione VOLUME! ?
La cosa più interessante è stata la possibilità di confrontarsi con uno spazio molto particolare perché, nonostante sia un volume bianco, lo spazio di Fondazione Volume! -una ex vetreria- è molto caratterizzato architettonicamente. E’ uno spazio raro da trovare perché molto massiccio, con mura vissute, poca luce, molto diverso dal classico white cube. Più che uno spazio, un luogo. Intervenire in questo contesto con un materiale artificiale è stata una bella sfida.
Se dovessi definire il tuo lavoro con una parola, quale sceglieresti?
DUO. Giocare con la parte e il tutto. Sdoppiare la prospettiva. Rivelare e nascondere.
Come lo scultore classico che lavora al blocco di marmo, Schramm lavora allo spazio bianco, non in modo sottrattivo ma in senso additivo. Un’intuizione che si materializza grazie alla sua capacità di associare e combinare i materiali, le forme e i colori in un sistema di relazioni visive. La scultura di Felix Schramm si esprime tramite l’architettura richiedendo all’ambiente di mutare, di trasformarsi. Richiesta che l’opera avanza anche al suo pubblico, che deve sapersi liberare dal proprio punto di vista sul mondo. Al fruitore l’artista chiede di praticare un esercizio di consapevolezza visiva.
FELIX SCHRAMM – DUO
a cura di Davide Sarchioni e Fondazione VOLUME!
Dal 1 Dicembre 2016 al 13 Gennaio 2017
Fondazione VOLUME!
Via San Francesco di Sales 86/88, Roma
Dal Martedì al Venerdì, 17.00 – 19.30
Info: 06 6892431
www.fondazionevolume.com