Si chiama Osservatorio, e sarà dedicato esclusivamente alla fotografia e ai linguaggi visivi, il nuovo spazio museale inaugurato da Fondazione Prada il 21 dicembre 2016 nella Galleria Vittorio Emanuele II di Milano.
La location è sobria ed elegante, dislocata su due livelli per un totale di 800 m2, e si presenta come un ampio corridoio in cui un lato è interamente dedicato all’allestimento delle mostre, pensato come un unico murale continuo. Frontalmente invece, grandi vetrate si affacciano sulla struttura ferrea della gigantesca cupola ottagonale progettata da Giuseppe Mengoni, lasciando intravedere suggestivi scorci del panorama architettonico milanese.
L’anima versatile di Osservatorio Prada emerge fin dalla scelta del nome, pensato per designare in primis un sito espositivo ma soprattutto, sulla scia dell’attività già avviata dalla Fondazione di Largo Isarco, un laboratorio di ricerca e indagine sul ruolo della fotografia e sulle implicazioni culturali e sociali del medium nelle diverse società odierne.
Osservatorio ha aperto ufficialmente le porte al pubblico il 21 dicembre con l’inaugurazione della mostra “Give Me Yesterday” curata da Francesco Zanon e visitabile fino al 12 marzo 2017, che rispecchia molto bene questo orientamento di ricerca. Il percorso infatti si interroga sull’utilizzo della fotografia come diario personale dall’inizio degli anni Duemila fino all’era odierna del digitale, segnata dall’uso ossessivo e alienante della tecnologia e dell’informatica e dal fenomeno globale delle piattaforme sociali.
La mostra porta in campo l’esperienza di 14 fotografi provenienti da tutto il mondo che rendono omaggio al lavoro di autori quali gli americani Nan Goldin e Larry Clark e gli europei Richard Billingham e Wolfgang Tillmans in Europa, ma anche alla fotografia tipologica di matrice tedesca applicata da Bernd e Hilla Becher, August Sander, Karl Blossfeldt e altri.
Tra gli oltre cinquanta lavori in mostra, alcuni riguardano l’osservazione o la rielaborazione di una situazione familiare (Ryan McGinley, Leigh Ledare, Lebohang Kganye, Maurice Van Es, Vendula Knopovà, Wen Ling, Johanna Piotrowska, Irene Fenara), altri utilizzano il selfie per intraprendere un percorso esplorativo di auto-analisi (Melanie Bonajo, Tomé Duarte, Izumi Miyazaki), qualcuno gioca con la manipolazione della fotografia digitale (Kenta Cobayashi), oppure documentano una certa realtà in un dato momento storico (Greg Reynolds) o creano ex-novo mondi fantastici (Antonio Rovaldi).
In molti casi, il risultato porta ad un netto ribaltamento del carattere privato, intimo e spontaneo che tradizionalmente dovrebbe preservare il racconto di un diario quotidiano, lasciando invece emergere una tendenza all’allestimento deliberato, alla messa in scena, alla componente performativa delle immagini mirata ad affermare un’identità individuale o collettiva.
Per esempio, in questa direzione si muove il progetto “Camera Woman” di Tomé Duarte, artista portoghese che nell’estate del 2015 si è fotografato con indosso alcuni abiti della sua ex-compagna, nel tentativo di ristabilire una connessione con lei e con ciò che la loro unione rappresentava.
Anche il progetto “Thank you for hurting me I really needed it” dell’olandese Melanie Bonajo è frutto di un lavoro su se stessa. L’allestimento occupa un’ampia porzione di muro al secondo piano e comprende più di 60 selfie scattati ogni volta che la donna ha pianto tra il 2001 e il 2011, secondo un schema che mette in contrasto la pratica istintiva e incontrollata dell’autoscatto con la disciplina compositiva della fotografia tipologica, dando vita a un catalogo di autentici anti-selfie.
Focalizzati sul rapporto con la figura materna, i tre progetti “Pretend You Are Actually Alive” di Leigh Ledare, “Her Story” di Lebohane Kganye, e “To Me You Are a Work Of Art” di Maurice Van Es vibrano di un intimismo capace di comunicare eppure mai forzato o in qualche modo violato, anche nei momenti più estremi.
Leigh Ledare realizza una delle serie più delicate dell’intera esposizione, in cui fotografa sua madre in momenti di profonda intimità, spesso velata da una certa malinconia, o addirittura spingendosi fino a ritrarla durante un rapporto sessuale, alternando questi scatti a fotografie dello stesso soggetto in posa con addosso abiti lussuosi e un make-up impeccabile secondo lo stile delle classiche dive del cinema.
La giovane artista Lebohane Kganye, 27enne originaria di Johannesbourg, opera una manipolazione digitale su alcune vecchie foto analogiche della madre scomparsa, entro le quali inserisce un’immagine digitale di se stessa nell’atto di imitare le azioni o le pose delle fotografie originali. Ne risulta una commovente celebrazione del rapporto madre-figlia e del senso di appartenenza alle proprie radici inserito entro il contesto di un paese, l’Africa, in cui l’unità famigliare è uno dei valori fondanti della società e tuttora considerati sacri e inviolabili.
Sempre in ambito familiare si colloca Vendula Knopovà, fotografa del 1987 originaria della Repubblica Ceca, che elabora un simpatico progetto video intitolato “Tutorial”: partendo da una serie di fotografie selezionate dall’hard-disk di proprietà della madre, l’artista dà vita ad una nuova narrazione familiare che include spesso scenette ironiche e surreali, ma che nel complesso strappa una risata ed esprime pienamente il carattere sperimentale e giocoso della poetica artistica dell’artista, ma anche della sua personale attitudine nella vita.
Tra i progetti italiani c’è la serie di Polaroid “Ho preso le distanze” di Irene Fenara, la quale interpreta metaforicamente il livello d’affetto che caratterizza il rapporto con i suoi cari, amici e semplici conoscenti, rendendolo in fotografia attraverso una distanza di tipo spaziale imposta tra l’apparecchio fotografico e il soggetto. Lo spazio fisico quindi riflette lo spazio emotivo, fornendo informazioni sul complesso universo relazionale dall’artista.
Tra gli artisti nati in territorio asiatico troviamo Kenta Cobayashi, Izumi Miyazaki, e Wen Ling. Quest’ultimo, fotografo originario di Pechino, sviluppa il proprio lavoro sfruttando la modalità del blog fotografico: il sito Ziboy.com, rimasto attivo fino al 2008, diffondeva online brevi sequenze di immagini riguardanti la quotidianità di Ling, che col tempo hanno finito per creare un immaginario specifico della città di Pechino visto attraverso le abitudini sociali di una piccola comunità cinese, esempio ne è la documentazione sui concerti rock.
Kenta Cobayashi invece si sofferma sulla trasformazione delle immagini digitali, giocandoci e manipolandole all’estremo per arrivare a dimostrarne la fragilità e la vulnerabilità, contro la percezione diffusa del mezzo tecnologico come qualcosa di identitario e inalterabile: la conclusione raggiunta dall’artista è che con l’avvento del digitale niente è più definitivo, ma tutto ciò che vediamo è soltanto una delle innumerevoli varianti possibili.
In generale, “Give Me Yesterday” è un’esposizione che stupisce positivamente per la scelta variegata e quasi mai banale delle proposte in mostra, ospitata in una location d’eccellenza che grazie all’ottima conformazone permette una lettura continua e fluida dei progetti, presentati in successione senza un preciso ordine cronologico. Meno convincente la scelta curatoriale di distanziare alcune opere in punti anche molto lontani della sala isolandole dal proprio contesto tematico, in quanto ciò può creare confusione e penalizzare la lettura di alcuni dei progetti che contemplati invece nella loro interezza assumerebbero sicuramente maggior fascino.
TUTTE LE INFORMAZIONI: http://www.fondazioneprada.org/project/give-me-yesterday/