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Intervista ad Ali Hassoun. «La mia arte è domanda e non risposta»

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Fino all’8 di aprile allo Studio Guastalla di Milano si può visitare la personale di Ali Hassoun, artista nato in Libano nel 1964 arrivato in Italia grazie a una borsa di studio nel 1982 a Firenze  dove ha frequentato l’Accademia e la facoltà di Architettura conseguendo la laurea nel 1992. La prima personale in Italia è del 1991. Si susseguono fino a oggi numerose mostre in tutto il mondo. Le opere di Ali Houssoun sono un viaggio affascinante nella storia millenaria delle sue radici arabe, sono contaminazioni di linguaggi che traggono ispirazione dalla Pop Art, un confronto tra realtà multietniche, tra antico e contemporaneo. Nelle sue tele le donne africane giocano ironicamente con le opere di Capogrossi, Frida Kahlo, Tano Festa, Mario Schifano e Rotella, un continuo rimando tra il tema sapientemente scelto come sfondo e il soggetto dipinto in un’esplosione di colori. Con la sua arte, Ali Hassoun mette in atto la volontà e la possibilità di contaminazione culturale, senza pregiudizi e limiti, per dimostrarci che può esistere un mondo senza confini.

Chi è Ali Hassoun?
E’ molto difficile dire chi sono. Sicuramente sono quello che vedi nella mia pittura. Sono il frutto delle esperienze che ho avuto fino a oggi. Siamo in continua mutazione, si cambia sempre, oggi sono così ma domani o dopodomani sarò altro ancora.

Quando hai iniziato e perché hai deciso di fare arte?
Sin da bambino desideravo fare l’artista, non è stato facile convincere la mia famiglia, a un certo punto, si sono resi conto che era l’unica strada percorribile per me. A tredici anni vidi in libreria un libro francese che raffigurava la Cappella Sistina, quella fu la mia grande rivelazione. Sono venuto in Italia grazie a una borsa di studio per studiare a Firenze, dove mi sono laureato in Architettura nel 1992. Ho frequentato anche l’Accademia, per me, ragazzo arabo, è stata una vera gioia: poter dipingere e ritrarre i modelli e le modelle dal vero. Ho vissuto anche a Siena, città alla quale sono particolarmente legato.

Come si è evoluta, se si è evoluta, la tua arte?
Per quel che mi riguarda l’evoluzione è inevitabile, è parte del mio dna. Penso ci sia stata un’evoluzione sia nelle tematiche affrontate che nei personaggi rappresentati. Prima raffiguravo soggetti più autobiografici, legati alla memoria culturale e famigliare, ricordi d’infanzia a volte anche nostalgici. Giunto a Milano ho iniziato ad aprire lo sguardo verso altro, l’aspetto sociale è diventato predominante, mi si è svelata una nuova visione.

Quanto è importante il viaggio per il tuo lavoro
E’ fondamentale vedere le cose da altre prospettive. Ho viaggiato molto e ancora oggi, appena si presenta l’opportunità, parto. Ho viaggiato molto in Africa, è un continente che amo, sono stato in Gabon, dove vive mia sorella, ma anche in Costa D’Avorio, Senegal, Mauritania. Mi affascinano profondamente le donne, tema affrontato nella mostra del 1997 fatta sempre allo Studio Guastalla, mostra presentata da Alberto Fiz con un testo di Aldo Mondino. Per me l’Africa è l’origine, è l’omaggio ad artisti come Capogrossi, Modigliani, Van Gogh e Picasso, artisti che hanno, nella loro arte, una relazione con il continente africano. E poi ci sono anche gli incontri, che in qualche modo sono un viaggio. Un viaggio istintivo legato a quegli eventi charmatici che capitano e che ti accompagnano e che ti confermano che il tuo cammino è il tuo destino. Io vado dove devo andare, naturalmente di questo me ne rendo conto a posteriori.

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L’arte è lo strumento che può far superare pregiudizi e incomprensioni?
L’arte è una grandissima forma di speranza ed io la esprimo con il colore. La mia pittura non vuole essere arte di denuncia ma semplicemente dimostrare che può esserci convivenza tra culture diverse. Un punto di contatto tra culture e diversità.

Come nasce il progetto della mostra Crossover allo studio Guastalla?
Crossover è vedere le cose in prospettive e punti di vista diversi, riuscire a vedere le cose sotto diverse sfaccettature. A volte cerco di mettermi al posto del mio interlocutore e cerco di immaginarmi, di immedesimarmi, spesso rido anche di me stesso. L’autoironia è un’arma di sopravvivenza.
Crossover è stato un progetto di studio e selezione di opere insieme a Silvia e Ettore Guastalla, siamo prima di tutto amici, ed è per me un grande piacere e onore poter lavorare con loro.

Le opere esposte hanno richiami alla Pop Art anche italiana. Sono una forma di denuncia o un gioco ironico?
Sicuramente ironico. Io sono un artista figurativo, lo sono sempre stato, anche in quei momenti che il figurativo non piaceva, o per lo meno che non piaceva al mercato. Mi sono appropriato della Pop Art non come strumento di contestazione sociale ma come alleato ironico per le mie opere, mi sono accostato come un uccello sul ramo più alto dell’albero della storia dell’arte, cercando di scegliere il ramo giusto, almeno così spero. Non dimenticare che sono nato in Libano, una cultura e una società estremamente diversa. Sai che ho scoperto che il mio cognome Hassoun vuol dire cardellino e il cardellino in arte, sin dall’età antica, è sempre stato rappresentato: Raffaello, Bosch, Tiepolo per citarne alcuni.

Hai sempre utilizzato riferimenti a opere di altri artisti, alcuni di queste si rifanno ai capolavori del passato. Perché?
Penso che sia un bisogno inconscio per costruirmi un’identità più vicina alla cultura occidentale.

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E la vespa che spesso troviamo raffigurata nei tuoi quadri?
E’ sicuramente un retaggio degli anni vissuti a Roma, io stesso avevo una vespa. Vedere queste ragazze dai lunghi capelli, alla guida di queste vespe che frecciavano per le viuzze romane, era per me di un fascino impagabile, mi innamoravo continuamente.

Quale è l’opera del passato che avresti voluto dipingere?
Caravaggio, in particolare il bellissimo dipinto il Martirio di san Matteo, conservato nella Cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma.

E quella di un artista moderno o contemporaneo?
Lucio Fontana, con un gesto solo ha detto tutto.

Nell’opera Giuditta e Oloferne la cantante Amy Winehouse tiene in mano la testa decapitata di Maurizio Cattelan perché?
Per esorcizzare gli eventi drammatici che stiamo vivendo, ho pensato che il più adatto fosse Maurizio Cattelan, perché ha sempre giocato con temi difficili in modo magistrale e Amy Winehouse perché era una donna fragile, dalla vita difficile, nonostante il grande successo. E’ l’istinto e la mente che se la giocano, è come la vittoria dell’immediatezza sul pensiero–ragionamento. Il presente che trionfa sul passato e sul futuro. Anche Jean Michel Basquiat e Andy Warhol in Davide e Golia sono giochi ironici. Anche se ti devo confessare che per me è stato come scavare in qualcosa di più intimo, è stato un esercizio per esprimere e affrontare dei sensi di colpa atavici, sociali e culturali. Un’elaborazione psicologica legata alle mie radici, al mio essere arabo, tutto gli avvenimenti che stanno accadendo nel mondo, vi facevano sentire direttamente coinvolto, non responsabile ma emotivamente coinvolto. Vivevo un sensazione di dispiacere e impotenza di fronte a tutto quello che sta succedendo, con questo nuovo ciclo, che è stato una presa di posizione, e come se mi fossi liberato. Penso che un artista debba avere coraggio e osare. Ritengo che la mia arte sia domanda non risposta.

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FINO AL 8 APRILE 2017
CROSSOVER
STUDIO GUASTALLA
Arte Moderna e Contemporanea
Via Senato 24 MILANO

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