Paul Verhoeven racconta il suo cinema: un’evasione da ogni morale. Elle, il nuovo film, in uscita il 23 marzo.
Sono appena terminate le ultime note della seducente colonna sonora che accompagna i titoli di coda di Elle – firmata dalla celebre compositrice Anne Dudley, una dei membri fondatori degli Art Of Noise nonché autrice delle musiche di pellicole quali The Crying Game, The Full Monty, American History X – quando le luci della sala che ospita l’anteprima romana del nuovo film di Paul Verhoeven si accendono ed è proprio il controverso regista ad apparire.
Dopo aver ricevuto l’applauso del pubblico, si siede velocemente ed è pronto a rispondere alle domande degli intervistatori: mi accorgo, così, che sin dall’aspetto ha qualcosa che lo fa somigliare al film appena visto.
A 78 anni mantiene una bellezza vagamente gelida che, unita all’attitudine di esporre in maniera semplice e assolutamente disinvolta i concetti più ambigui, gli permette di essere decisamente consapevole dell’effetto sortito in chi lo ascolta e osserva. Così come Michèle Leblanc, magistralmente interpretata dall’insostituibile Isabelle Huppert – ed è davvero arduo immaginare qualche altra attrice così a suo agio in un ruolo simile – Paul Verhoeven parla con naturalezza di quanto sia stato complicato portare sullo schermo la storia di una donna vittima di una violenza sessuale che non vuole assolutamente percepirsi come tale e, probabilmente, non lo si sente nemmeno.
>> Elle, adattamento cinematografico del romanzo Oh… di Philippe Djian, è chiaramente una vicenda complessa, soprattutto per un pubblico americano: di conseguenza è stato praticamente impossibile avere finanziamenti dall’industria di Hollywood. Il motivo di quest’impasse risiede, probabilmente, in una protagonista che stabilisce un rapporto morboso con il suo violentatore.
Ma la relazione sadomasochista che si stabilirà tra loro, dagli esiti impensabili, potrebbe non essere l’unica ragione di questa fortissima resistenza: secondo il regista è molto difficile per gli americani accettare la grande ironia con cui è affrontato il tutto, sia nel romanzo sia nel film. Ciò sfocia nell’impossibilità di ridurre Elle a un determinato genere. È certamente un thriller, ma non solo: sono tantissimi i tipi di relazione che questa donna intrattiene con quelli che la circondano e altrettanti sono i registri con cui questi vengono trattati. Ma, se ci si pensa bene, la vita stessa non ha un genere mentre nel cinema si tende troppo a categorizzare il thriller o la commedia, la tragedia o il romantico: Verhoeven preferisce sottolineare come, nell’arco di un’intera giornata, al mattino si possa assistere a un evento tremendo mentre la sera si può ridere per qualcosa che si è visto in TV.
Ecco la chiave narrativa che si è voluta usare per Elle: a Michèle succedono delle cose terribili e – durante la visione -scopriamo che persino la sua infanzia è stata marchiata da una incancellabile mostruosità, ma la sua vita è fatta anche di molto altro.
Quando gli si fa notare che, forse, ama un po’ troppo le donne tormentate, dimostra come ciò non sia assolutamente vero citando Rachel Stein – la protagonista di un suo precedente film, Black Book, e interpretata da Carice van Houten – che vive in Olanda ai tempi dell’occupazione nazista, teme per la propria vita e semplicemente cerca di salvarsi. Ma nemmeno Michèle, ai suoi occhi, è tormentata: ha vissuto delle esperienze estremamente violente, specie da ragazzina, ma il suo carattere è stato forgiato da esse tanto da trasformarla in una sopravvissuta, che non accetta di essere una vittima e rifiuta il ruolo impostole da ciò che ha subito.
In questo senso è rivelatrice la scena al ristorante in cui annuncia ai propri amici “credo di essere stata violentata” quando chiaramente lo è stata: il suo modo di esprimersi rimane ambiguo e quando le viene mostrata compassione per quello che le è successo, taglia corto dichiarando che è ora di ordinare.
In Elle, semmai, sono gli uomini a uscire malconci: incapaci di gestire donne a vario titolo sicure di se stesse e consapevoli del posto che occupano nel mondo, finiscono per elemosinare la loro attenzione e gratificarle istantaneamente senza avere praticamente nulla in cambio.
Continuando a parlare di cinema, il regista non risparmia le sue critiche all’industria a stelle e strisce dichiarando che in Europa un regista è infinitamente più libero. Inizialmente, infatti, il film doveva essere girato in America: il produttore Saïd Ben Saïd aveva già lavorato con moltissimi dei più grandi registi statunitensi e Verhoeven vive a Los Angeles, quindi la scelta di ambientarlo lì sembrava la più naturale del mondo.I finanziamenti, però, non riuscivano a essere messi insieme e, in più, nessuna attrice voleva accettare un ruolo così controverso e problematico. In realtà la Huppert aveva già contattato l’autore del romanzo, dicendosi molto interessata a quella parte ancor prima che il meccanismo cinematografico si mettesse in moto.
Così, quando si è deciso di tornare nel Vecchio Continente e girare Elle a Parigi, molto umilmente hanno chiesto a Isabelle se era ancora interessata alla parte: fortunatamente ha accettato all’istante, tanto che non c’è stato bisogno di discutere gli aspetti psicologici perché lei era pronta a interpretare tutto ciò che c’era scritto nel libro o nella sceneggiatura. Questo perché l’attrice è una persona estremamente audace, se crede nel ruolo affidatole: non le interessa riscuotere le simpatie del pubblico, cosa che Verhoeven ci tiene a sottolineare sia un elemento che hanno in comune.
Una volta decisa la location europea sono state necessarie alcune modifiche alla sceneggiatura, la più vistosa delle quali è anche una delle pochissime differenze rispetto al romanzo: nella pellicola Michèle non è a capo di una redazione di sceneggiatori per la TV e il cinema – cosa visivamente un po’ noiosa e senza alcuna attinenza con la trama per poter essere tradotta efficacemente sul grande schermo – ma piuttosto di una società che produce videogiochi.
Il motivo di questa variazione non risiede certamente nel voler veicolare il messaggio che chi è appassionato di un certo tipo di videogiochi è maggiormente incline alla violenza: più realisticamente, mostrare una donna che si occupa di editare o cambiare personaggi di testi altrui era un’occupazione troppo astratta per i tempi della settima arte. Così, durante una cena di famiglia, il regista chiede ai suoi commensali che tipo di lavoro avrebbe potuto svolgere la protagonista di questa storia: la figlia più piccola, appassionata di videogiochi, propone quella professione. Un suggerimento accolto con entusiasmo dallo sceneggiatore, David Birke, che ha inserito questo tema come fosse una sorta di piccola narrazione parallela alla vicenda.Una scelta basata su una certa casualità – la cena in famiglia e il suggerimento della figlia minore – ma capace di rivelarsi davvero indovinata fa tornare in mente il dirompente effetto che il celeberrimo interrogatorio di Sharon Stone in Basic Instinct ha avuto sul pubblico. Una scena ripresa in 10 minuti e praticamente a fine giornata: quando i 5 attori protagonisti erano andati già via ed erano rimasti solo lui, lei e il direttore della fotografia. Un girato dimenticato finché il montatore – che Verhoeven ricorda argutamente come una personcina tanto per bene e un buon cattolico – non decide di inserirlo nel montaggio da mostrare al regista: ma è solo dopo averlo proiettato pubblicamente che ci si è resi conto della potenza di quel momento.
Un pezzo iconico della cinematografia mondiale ispirato, inoltre, dalla vita reale: Verhoeven ricorda come una sua compagna di università avesse l’abitudine di andare alle feste senza indossare le mutandine, suscitando l’entusiasmo dei presenti che le chiedevano se poteva accavallare le gambe. La ragazza pare rispondesse “certo, non le metto apposta”. È, dunque, grazie a questo ricordo che il personaggio di Catherine Tramell si è imposto per sempre nell’immaginario erotico di chiunque.
Per quanto riguarda i progetti futuri, invece, Paul Verhoeven rivela che il prossimo sarà ancora una volta dedicato al femminile: una vicenda medievale che avrà come protagoniste due donne, suore, e verrà ambientato in un monastero a Peschia, una cittadina della Toscana vicino Firenze. È tratto da Immodest Acts, un libro storico di un professore americano che prende spunto da alcuni documenti trovati in un archivio fiorentino e narrerà la storia vera di una vergine diventata suora: il titolo provvisorio è Blessed Virgin. Quest’opera viene ironicamente definita la preparazione a un suo film sulla figura di Gesù, basato su un libro pseudoscientifico scritto da Verhoeven stesso e ispirato dal Vangelo di Marco.Aspramente critico nei confronti dell’amministrazione Trump, il regista prevede un intensificarsi dei film di guerra, temendo però che venga spacciata come qualcosa di eroico e da esaltare invece del contrario. In ogni caso spera che Hollywood denunci il suo malcontento per l’elezione dell’attuale presidente anche cinematograficamente, nonostante sappia bene che spesso ciò che conta per chi vi lavora è l’incasso al botteghino, quanto costa e quanto guadagna un film.
Lui, comunque, si dichiara disponibilissimo a fare la sua parte anche se non risparmia una frecciatina per essere stato snobbato agli Oscar, nonostante i Golden Globe vinti da Elle. Lo fa citando direttamente il favore e il successo riscossi da La La Land grazie alla sua capacità di evocare i bei tempi andati, quando tutto era più semplice: forse perché la cosa che più desidera adesso chi guarda un film è l’evasione. Una sensazione che, pare chiaro, non è possibile di fronte alle opere di Verhoeven: forse perché, nel profondo del non detto, sappiamo tutti quanto i suoi personaggi ci somiglierebbero. Se solo potessimo evadere da ogni morale.