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Guido Peruz dona il dittico Qohèlet a Palazzo Ducale, Venezia. Intervista

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Qualche mese fa Guido Peruz, veronese di nascita ma milanese d’adozione, è stato invitato a Venezia, a Palazzo Ducale nella Chiesetta del Doge, recentemente restaurata dalla Fondazione Musei Civici, con il suo dittico Qohèlet, un dono dell’artista al più famoso e visitato dei monumenti veneziani.

Collocata su due pareti speculari dell’Anti-Chiesetta del Doge, l’opera è composta di settantadue tavole ricoperte da foglia d’oro, divise in due pannelli, dove l’artista ha inciso il testo biblico completo scritto da Qohèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme, che inizia così: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”. Il libro parla dell’effimero, dell’inconsistenza della natura umana di fronte al Divino, una mistica preghiera che è espressa nell’opera di Peruz con le parole celate dietro lo splendore dell’oro. Le due opere sono state collocate nelle due cornici rimaste vuote fin dall’inizio dell’Ottocento che avevano ospitato due tele di Jacopo Tintoretto, con S. Luigi, S. Giorgio e la Principessa e con S. Andrea e S. Girolamo, ora alle Gallerie dell’Accademia.

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Guido Peruz sin da bambino manifesta il suo interesse per l’attività artistica e completa la sua formazione prima a Venezia, poi all’Accademia Albertina di Torino ed infine a Milano all’Accademia di Brera. Inizia a esporre nel 1969 al premio San Fedele a Milano e alla galleria Goethe di Bolzano, attivo sia in Italia sia all’estero, ha esposto in numerose mostre sia personali sia collettive.
Un altro aspetto artistico di Peruz è collezionare opere di altri artisti, ama definire la sua ricca collezione come la raccolta del rigattiere, perché ha sempre acquistato ciò che era possibile comprare quando gli altri rifiutavano quel tipo di artista o di pittura, ecco perché oggi è tra i più grandi collezionisti del movimento Nouveau Réalisme, di Maurice Henry, di Mimmo Rotella e di molto altro, fu amico di Pierre Restany e Fontana, e ancor oggi di Arturo Schwarz e Emilio Isgrò, ma anche di molti artisti e critici .

Come inizia la tua passione per l’arte?
Ero destinato a fare l’artista. Da bambino ero taciturno e solitario, vivevo di sogni e fantasia e anche di solitudine. C’è una premessa: mia madre nata nel 1908 ha fatto gli studi magistrali è finito gli studi avrebbe voluto frequentare l’Accademia di Venezia, allora per una donna e per i tempi era quasi impossibile accedere agli studi, probabile questo desiderio inespresso è rimasto nel dna di famiglia perché nonostante i miei studi scientifici, portati avanti con una certa difficoltà, finii per iscrivermi all’Accademia attratto dall’arte e dal senso di libertà che solo l’arte può dare. Venezia poi ha un ruolo fondamentale perché noi passavamo le estati al Lido, con la famiglia frequentavo non solo le mostre e i musei, ma anche le Biennali, tutto questo è stato incisivo per le mie scelte artistiche. Ho iniziato a dipingere alla fine degli anni ’50 con gli smalti, opere informali e molto colorate, usavo materiale come sassi, legno, cera, ero alla ricerca di una mia dimensione, sperimentavo per trovare la mia strada. Dal periodo astratto e informale, colorato e compositivo sono passato al segno e alla scrittura. Le prime mostre sono degli anni ’60, nel 1969 ho esposto alla Galleria Gothe, alla Galleria Arte Centro e a Seregno alla Galleria San Rocco presentato da Roberto Crippa. Tutto il mio lavoro è contrassegnato dal gesto e dal segno, anche se oggi può sembrare solo concettuale in realtà è fatto di manualità, in ogni dipinto c’è la mia presenza e la mia fatica. Per me l’opera deve contenere la memoria spirituale.

Quadrato e oro sono gli elementi sempre presenti nella tua opera.
Io volevo ritrovare la mia storia, e la storia dell’umanità, per ritrovarle ho consultato l’ultimo libro dei testi sacri: l’Apocalisse. E’ un libro fatto di numeri, di valori simbolici e di colori, è anche una rivelazione di qualche cosa che si conosce e non si conosce, e tutto inizia con il sogno. Io credo fondamentalmente nella vita, nella gioia di vivere e nella speranza. L’oro perché è il colore della rivelazione, è un colore speculante, mentre il quadrato perché è il simbolo della città terrestre, la speranza sta in questa città quadrata che è d’oro. Il quadrato d’oro è il contenitore della parola sacra.

Sei anche collezionista, quando è perché hai incominciato a collezionare?
Ho lavorato come direttore artistico nella stamperia di Renato Volpini, dopo quell’esperienza, durata dieci mesi, ci siamo lasciati mantenendo sempre l’amicizia fino a quando è mancato. Da questa esperienza ho iniziato a collezionare, continuando a fare l’artista.

Che scelte hai fatto per la tua collezione?
In realtà non ho fatto scelte a tavolino, mirate all’investimento. Ho sempre preso in considerazione quelle opere che il mercato non considerava in quel determinato momento. Come nel Nouveau Réalisme, dove gli artisti utilizzavano gli scarti per la realizzazione delle opere, io prendevo le opere che gli altri scartavano, perché allora non richiesti dal mercato: Fontana, Kazuo Shiraga, artisti del Fluxus e del Nouveau Rèalisme, poi sono diventati importanti. Ho anche una serie di opere di artisti sconosciuti perché non firmati ma che ho acquistato per la loro qualità, la chiamo la “collezione anonima”.
Sia come artista che come collezionista ho fatto un percorso unico, perché ho vissuto come senza prendere in considerazione il mercato, le pubbliche relazioni, il commercio, le cose sono tutte venute perché dovevano venire, anche i critici che si sono interessati al mio operare sono venuti non perché io li cercassi, ma perché hanno visto il mio lavoro e gli è piaciuto. E’ stato il mio lavoro che li ha conquistati.

Viene prima l’artista o il collezionista?
Sicuramente l’artista. Ho sempre cercato di fare un lavoro che rispecchiasse me stesso, fatto con la massima onestà e nel quale io mi identifico come persona. Il lavoro delle tavole rivestite d’oro è un lavoro che si vede e non si vede, tu lo tocchi e percepisci che c’è qualcosa che non sempre l’occhio vede.

Quale è l artista a cui ti sei ispirato?
Ernst Paul Klee, andai giovanissimo a Berna a vedere la Fondazione Klee, mi recai persino a bussare alla porta del figlio Felix. Adoro il mondo di Klee perché è un mondo di piccole dimensioni, un mondo intimista, di cose che tu vedi da vicino, un po’ come il mondo delle miniature.

Hai donato una tua opera QOHELET a Palazzo Ducale collocata nella Chiesetta del Doge, come nasce il progetto?
Qualche anno addietro Gabriella Belli, direttore dei Musei Civici di Venezia, mi ha contattato, già conosceva il mio lavoro perché avevo esposto un opera in una mostra al MART di Rovereto. Quando hanno restaurato la Chiesetta del Doge e l’Anti-Chiesetta a Palazzo del Doge, dove c’erano tre cornici vuote perché alcune opere erano state spostate in altre sedi, prima erano spazi occupati da due pale del Tintoretto, lei ha pensato a me per installare due opere nelle cornici rimaste vuote. Le opere sono composte da settantadue tavole ricoperte di foglia d’oro, divise in due pannelli, trentasei per pannello, vi è iscritto il testo biblico di Qohelet, figlio di Davide, re di Gerusalemme, e iniziano con la parola vanità delle vanità, tutto è vanità . Sono un inno all’inconsistenza della natura umana di fronte al divino, una riflessione sui valori della vita.

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palazzoducale.visitmuve.it

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2 Commenti

  • Bravissimo Guido.Lo era sin da piccololu7u

  • Tutto è vanità. Ma quanti se ne ricordano?Bellissimo che Guido Peruz(un artista poco conosciuto) abbia voluto incidere su tavolette d’oro il libro Qohèlet che è un richiamo fortissimo all’essere soprattutto “spirituali”. E dove si trova? A Venezia, naturalmente, nella chiesetta del Doge(Palazzo Ducale), dove potranno ammirarlo non solo gli italiani, ma tutti i numerosi visitatori che vengono da ogni parte del mondo. Così la Bibbia ammaestra sempre e tutti. Bravo Peruz, 10 e lode. Maria de falco Marotta

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