Tre mostre fra Montepulciano, Pienza e San Quirico d’Orcia, che attraverso gli artisti più rappresentativi della pittura senese ne raccontano l’evoluzione fra Cinquecento e Seicento. Fino al 30 giugno 2017.
Siena. Il secolo che va dal primo Cinquecento al primo Seicento segnò per la Penisola l’inizio del declino: con la fine dell’equilibrio politico fra Napoli, Venezia, Milano e Firenze, disegnato da Cosimo de’ Medici, e l’affacciarsi della dominazione francese prima e spagnola poi, unitamente agli effetti della Controriforma, l’Italia perse il suo slancio economico e culturale, avviandosi a svolgere un ruolo marginale sulla scena europea, almeno fino all’Unità. nemmeno la Toscana fu esente da disordini politici, con l’allontanamento dei Medici (dal 1494 al 1512) in seguito alla discesa di Carlo VIII, e ancora dal 1527 al 1530, con l’ultimo impeto repubblicano indirettamente acceso da Carlo V. Anche l’antica e gloriosa Repubblica di Siena, nata attorno al 1125, si trovò schiacciata fra gli eserciti francesi e spagnoli che si disputavano l’Italia, e subì l’invasione dei secondi nel 1540; l’alleanza franco-senese fu spazzata via dalle truppe di Carlo V, che nel 1555 consegnò la città e il suo contado al dominio dei Medici, estromettendovi così i francesi. Persa, per volere altrui, la propria indipendenza, Siena divenne parte integrante del nuovo Granducato di Toscana.
Nonostante i rivolgimenti politici, il Cinquecento fu per la città un secolo artisticamente interessante: cerniera fra il XV e il XVI Secolo, anche per ragioni anagrafiche, fu Domenico Beccafumi (1484-1551), cui il Museo Civico di Montepulciano dedica un’interessante antologica curata da Alessandro Angelini e Roberto Longi, contestualizzandolo a fianco di contemporanei quali Fra’ Bartolomeo e Girolamo del Pacchia. La lezione dei Primitivi, illustri esponenti della prima grande stagione della pittura senese, affiora in Beccafumi che la addolcisce così come Petrarca aveva addolcito il verso dantesco: quella magrezza dei colori (i grigi, l’ocra, il verde tenue), l’asciuttezza dei volti e dei corpi, quei paesaggi così delicati da sembrare “lievitati” dalla terra (come scrisse Malaparte in Maledetti toscani), permangono nelle sue tavole, affiancate però dalla raffinatezza delle forme e dalle sfumature coloristiche introdotte da Leonardo, Raffaello e Botticelli, fautori di una pittura che fosse la trasposizione su tela delle riscoperte dell’arte e della filosofia classica che costituirono l’essenza del Rinascimento.
La ieraticità medievale cede il campo a una ben più carnale realtà umana, con santi e divinità che scendono fisicamente sulla Terra. La mostra poliziana comprende pregevoli opere del Beccafumi: Giuditta, Artemisia, Cleopatra, protagoniste di un ciclo in tre opere, affascinano per la loro leggiadria, mentre le due Madonne col Bambino e San Giovannino (una del 1508, l’altra del 1511), esibiscono soluzioni compositive che lasciano intendere un attento studio, da parte dell’autore, della pittura fiorentina dell’epoca, e le espressioni dei volti in particolare rimandano a Raffaello. Ad affiancare Beccafumi, un’ampia e approfondita selezione di opere di suoi contemporanei che furono attivi nel senese; scopriamo quindi Fra’ Bartolomeo, Andrea del Brescianino, Girolamo del Pacchia, Girolamo Genga, esponenti di quel nuovo corso pittorico che vide Siena in costante contatto con Firenze e Urbino, patria quest’ultima non solo di Raffaello ma anche di Genga.
Il racconto prosegue a San Quirico d’Orcia, nel cuore di una delle zone più affascinanti del senese, e precisamente a Palazzo Chigi Zondadari. Dal Sodoma al Riccio: la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica, a cura di Gabriele Fattorini e Laura Martini, traccia il corso della scena artistica cittadina alla vigilia della perdita dell’indipendenza a favore del dominio dei Medici, cui Siena fu “donata” da Carlo V. Anni politicamente turbolenti, quelli che vanno dal 1527 al 1555, aperti dal Sacco di Roma e punteggiate dalle guerre franco-spagnole, eppure artisticamente vivaci, nel corso dei quali Siena si arricchì di numerosi capolavori commissionati per chiese e palazzi privati.
La mostra si focalizza in particolare sulla tarda attività del Sodoma (1477-1549), che a Siena chiuse la vita e la carriera, e del suo allievo Giomo del Sodoma, che potrebbe identificarsi con il convenzionale “Marco Bigio” cui sono state attribuite numerose opere di scuola del Sodoma. Una mostra di studio, con dipinti anche poco noti del Sodoma, uno su tutti l’affascinante Sacra Famiglia e San Giovannino, databile attorno al 1530. Siamo ormai in clima manierista, che a Siena ebbe fra i suoi esponenti anche Bartolomeo Neroni detto “il Riccio”; un Manierismo, quello senese, che non si distaccò mai del tutto dall’antica lezione dei Primitivi, conservando un fondo di rustica semplicità, e mostrandosi assai meno appariscente, ad esempio, del Manierismo veneto.
Siena è città medievale nell’animo, e tale è la sua civiltà, che rifugge le secolari lusinghe moderniste preferendo la tranquillità delle sue robuste mura (anche se “scavalcate” da Carlo V); i corpi sono generalmente lontani dalla pinguedine romana e spagnolesca, i volti conservano espressioni lontane dalla turgida teatralità, ad esempio, del Michelangelo della Sistina, il che dà la misura del mantenimento dell’identità senese (e toscana), anche in un clima artistico dominato da indiscussi geni. Poiché la mostra propone anche alcune opere del Beccafumi e del Pacchia, è possibile seguire visivamente l’evoluzione dello stile pittorico fra il primo e il secondo Cinquecento. Tuttavia, come detto, una certa sobrietà stilistica caratterizza sempre i vari pittori, sobrietà nella quale s’imbattevano frequentando Siena e la sua gente.
Se con il Rinascimento si è probabilmente toccato un apice mai più nemmeno sfiorato, il Manierismo sopraggiunse una certa stanchezza: la rutilante Italia (e soprattutto la Toscana) che per oltre un secolo aveva strabiliato il resto d’Europa, era adesso nuovamente preda di guerre intestine, rivolte e carestie, alle quali si aggiunse la scure della Controriforma, la quale fece del Seicento un’epoca assai controversa: a fianco dello sviluppo tecnico e scientifico diffuso dalle accademie, permanevano credenze e superstizioni medievali abilmente utilizzate dalla Chiesa per evitare l’emancipazione del “gregge”. Anche la pittura si adeguò al nuovo clima, e già a Firenze negli anni Settanta del Cinquecento, attorno all’Allori, era nato una sorta di movimento pittorico fautore del naturalismo quale mezzo di rappresentazione del divino nel quotidiano. A Siena, il “naturalista” di riferimento fu Caravaggio, che ebbe il suo maggior epigono nel Rustici, al quale il Conservatorio San Carlo Borromeo di Pienza dedica Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco gentile, curata da Marco Ciampolini e Roggero Roggeri. Diretta continuazione della mostra di San Quirico, si apre nel segno del Tardo Manierismo, con Casolani e Vincenzo e Cristofano Rustici, lasciando spazio anche al naturalista senese Rutilio Manetti (1571-1539). Elemento di rottura con l’epoca precedente, il nero chiesastico degli sfondi che sempre più sostituisce il paesaggio toscano. Nero tuttavia funzionale agli esperimenti di luce e ombra avviati da Caravaggio e destinati a fare scuola in Italia e in Europa. E suggestivo è il “lume di candela” del Rustichino, anche se alla realtà “dura e cruda” delle taverne del Merisi oppone sempre una gentilezza di tratto che denota la profonda influenza della pittura senese del passato.
Una mostra complessa, sia per dislocazione in tre sedi, sia per il periodo preso in esame; una complessità però affascinante, che permette di spaziare nella bellezza del territorio senese e di approfondire la conoscenza di artisti meno noti al grande pubblico, ma per i quali è passato il rinnovamento della pittura toscana, oltretutto in un periodo politicamente instabile. Ma è proprio del genio italiano dare il meglio di sé affrontando le sfide più dure.
Tutte le informazioni: www.ilbuonsecolodellapitturasenese.wordpress.com