Ottanta scatti raccontano la capitale francese nella sua spontaneità, in una mostra a cura di Maurizio Vanni. Fino al 12 novembre 2017. www.luccamuseum.com
Lucca. Per ovvie ragioni anagrafiche, Robert Doisneau (1912-1994) ci consegna una Parigi d’altri tempi, che a sua volta lascia una sensazione di dolce nostalgia; un reportage lungo quasi cinque decenni, autentico atto d’amore verso una città dai mille volti, caratterizzata da quel proverbiale grigio esaltato da Henry Miller in Giorni tranquilli a Clichy, e che sotto l’obiettivo di Doisneau si riveste di mille colori, risuona del ritmo febbrile di una città che è un po’ bordello e un po’ caffè letterario, dove anche i monumenti sono protagonisti della vita quotidiana, con il loro accompagnare e sorvegliare le passeggiate dei passanti.
Parigi, elegante e sdrucita, non troppo diversa nella forma da quella raccontata da Zola; Doisneau è fotografo narratore la cui vena naturalista si stempera nella ricerca dell’ironia, dell’insolita situazione prospettica, di un momento di tenerezza o comunque di serenità, dove i conflitti sociali restano sullo sfondo perché comunque interessano tutte le città, quando invece Parigi ha un suo personalissimo volto fatto di sensualità, una certa pigrizia esistenziale un po’ patologica e un po’ studiata, una città dove la languidezza di un giorno di pioggia assume una profondità capace di contenere un romanzo di Proust o una sinfonia di Berlioz. Dalla Parigi degli anni Trenta – che aveva ancora i suoi angoli di campagna -, a quella degli anni Ottanta, una città trasversale, di letterati e vagabondi, le soubrette del varietà e i suonatori di strada, scolari e poliziotti, nottambuli e operai. ROBERT DOISNEAU. À l’imparfait de l’objectif, riassume il concetto che il fotografo ebbe della sua arte: «Il mondo che stavo cercando di presentare era quello in cui mi sarei sentito bene, dove le persone fossero amichevoli, dove trovare la tenerezza che ho desiderato. Le mie foto erano come una prova che un tale mondo potesse esistere». L’imperfezione dell’oggettivo sta in quell’immortalare l’istante, il movimento di mille scene quotidiane che fanno parte del mosaico della città, come questo squarcio di serenità che Doisneau riesce a cogliere e amplificare.
La sua è una ricerca di scorci insoliti così come Matisse azzardava accostamenti di colore; ne scaturisce, pur nel bianco e nero, la medesima luminosità concettuale. E ancora, chiaroscuro ha l’andamento delle partiture di Miles Davis, quello “languido” e melodico delle origini, sviluppate anche a Parigi, in compagnia di Juliette Gréco, fra il 1947 e il 1948, quando frequentava in particolare il quartiere di Saint Germain des Prés e il Caveau de la Huchette.
Doisneau fa emergere il lato intimo della città, con le strade e le piazze che sembrano corridoi e stanze di case private, così come i locali pubblici, a prescindere dal livello di raffinatezza, hanno tutta l’aria di essere altrettanti salottino ogni angolo dei quali è conosciuto dagli avventori meglio che le proprie tasche. Non una città-museo o una città da cartolina, bensì una Parigi viva e vissuta, che Doisneau lascia emergere anche attraverso gli xx contrasti immortalati dal suo obiettivo, piccoli episodi che sembrano accadere come per caso, vissuti con divertimento dai protagonisti come dagli astanti: è il caso di quanto accaduto in un caffè di Joinville le Pont un lontano mattino del 1948, dove una coppia elegantemente vestita, di ritorno d auna festa notturna, si gode un ultimo cocktail prima di rincasare, e a poca distanza, un lavoratore dal volto rigato di sporco e di fatica, sorbisce un bicchiere prima del meritato riposo. Sul suo volto, un sorriso appena accennato, o forse represso, per destini assai diversi, eppure partecipi della joie de vivre che nel dopoguerra era rifiorita in città.
Un’ineffabile eleganza avvolge Parigi, nei palazzi antichi come nelle botteghe dei quartieri popolari, forse anche per merito della lingua francese, tale da far sembrare una blanchisserie o una boulangerie luoghi quasi magici, quando in realtà sono, più semplicemente, una lavanderia e una panetteria. Eppure Doisneau vi aggiunge un tocco di solarità, che esalta la pacifica operosità di artigiani e bottegai, cui si accompagna l’allegro schiamazzo dei bambini, all’uscita da scuola o sorpresi nei giochi pomeridiani per strade e piazze meno frequentate dagli adulti, in una città che dagli anni Trenta è molto cambiata, e per la quale non si può non provare nostalgia, così come per le scene d’altri tempi dei balli nobiliari degli anni Quaranta e Cinquanta, ultimi bagliori di una rimpianta Belle Époque.
C’è un dettaglio ricorrente nell’opera di Doisneau; il marciapiede, bagnato di pioggia o assolato, percorso da Raymond Queneau o momentaneo luogo di sosta per un gruppetto assorto in una conversazione. Un protagonista discreto, così come le piazze, che diventano quinte teatrali di una quotidianità cui il fotografo partecipa con interesse, molto spesso cogliendola così com’è, più raramente costruendo l’immagine, come è stato il caso del celeberrimo Bacio all’Hotel de Ville.
Accanto alla città vissuta dalla folla, Doisneau va in cerca di una città individuale, imbattendosi in solitudini dignitose e persino solenni, appartenenti a personaggi non comuni, che, su differenti livelli, appartengono anch’essi all’anima più vera di Parigi. Fra questi, il taciturno Coco, habitué di un bistrot in Rue Xavier Privas, sulla riva sinistra, a pochi passi da Notre Dame; uno strano personaggio che, in cambio di un bicchiere, cantava volentieri una vecchia canzone legionaria, Voilà du boudin!. Doisneau lo ritrae in bombetta e cappotto neri, anima bonaria di bohémien un po’ squinternato. Più patetica la storia di Julien Nollan, un tempo maggiordomo del Principe di Wagram, ma negli anni Cinquanta portiere presso un nightclub di Montparnasse. Appassionato collezionista di pezzi d’antiquariato, si lasciò ritrarre da Doisneau nel suo minuscolo monolocale dalla solennità di un museo, inombro di quadri, mobili e oggetti antichi, compreso un grande ritratto dell’ultimo Zar Nicola II Romanov. Due personaggi molto diversi, eppure vicini per il modo in cui sono chiusi in se stessi, in ricordi di tempi passati, sicuramente più felici. Ma l’obiettivo del fotografo ammanta di leggerezza anche queste due esistenze, togliendo loro qualsiasi aspetto drammatico e consegnandole alla poesia.
Come poetico è l’approccio di Doisneau, cantore di una Parigi a misura d’uomo, dove la grandezza del passato, testimoniata dai monumenti, non mette in ombra l’individuo, che, nella patria dell’Illuminismo, è il vero protagonista della Storia.
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