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The ballad of sexual dependency. I bassifondi americani di Nan Goldin alla Triennale

Nan Goldin - Trixie on the cot, New York City 1979 © Nan Goldin Nan Goldin - Trixie on the cot, New York City 1979 © Nan Goldin
Nan Goldin - Trixie on the cot, New York City 1979 © Nan Goldin
Nan Goldin – Trixie on the cot, New York City 1979 © Nan Goldin

Per la prima volta in Italia, grazie alla collaborazione fra il Museo della Fotografia Contemporanea e la Triennale, il discusso e poetico “film fotografico” della fotografa americana di origine ebraica. A cura di François Hébel, fino al 26 novembre 2017. www.triennale.org

Milano. “Life is just a cocktail party on the street”. Parole e musica dei Rolling Stones, che però riecheggiano in maniera abbastanza precisa la poetica artistica di Nan Goldin (Washington, 1953), fra le pioniere del colore nella fotografia artistica a metà degli anni Ottanta, ma soprattutto la prima donna ad affrontare nelle sue opere il tema del sesso, cosa che le attirò il biasimo ipocrita di un ambiente ancora fortemente maschilista. A distanza di trent’anni, la sua opera non smette di affascinare e far discutere.

Il sesso è il fil rouge della sua opera, presente ovunque, anche quando non emerge in maniera esplicita; è infatti continuamente suggerito, ammiccato, insinuato, come un impellente istinto primordiale che trova sfogo in mille atteggiamenti e rituali, dai tatuaggi all’assunzione di eroina, dalla nudità alle pose ammiccanti.

Nan Goldin - The Hug, NYC 1980 © Nan Goldin
Nan Goldin – The Hug, NYC 1980 © Nan Goldin

Uno spaccato di storia americana racchiuso in una mostra fotografica sui generis, dove le fotografie non sono esposte una a una, bensì racchiuse in un unico filmato della durata di 45 minuti: The ballad of sexual dependency, che comprende 700 scatti che scorrono con il sottofondo di una colonna sonora assemblata direttamente dalla Goldin, che spazia dal blues alla classica, passando per la dance, e include brani dei coroner americani degli anni Cinquanta, l’aria d’opera Casta Diva, una cover di I’ll be your mirror dei Velvet Underground, e la versione originale del loro brano All tomorrow’s parties. Una soundtrack che è parte integrante dell’opera, ognuno dei brani integrando concettualmente per gruppi le immagini che scorrono sullo schermo, facendole vivere oltre la pellicola. Siamo infatti davanti a un’opera che è un autentico spaccato di vita: pur non essendo un documentario, riesce a trasmettere il clima dell’epoca e del luogo, innovando la fotografia artistica attraverso un linguaggio, in un certo senso, espressionista: osservando quei corpi nudi, difficile non pensare, ad esempio a Richard Gerstl o Oskar Kokoschka: corpi reali, fisici, eppure attraverso la fotografia Goldin riesce a catturare e a far uscire da quei corpi anche il loro vissuto, a trasmetterlo empaticamente a chi osserva. Su ognuno di essi è incisa, più o meno profondamente, una storia, che spesso s’intuisce difficile, sbandata, fatta di solitudine e amarezza; del resto, gli orizzonti di downtown non sono mai particolarmente ampi, ed è indispensabile inventarsi qualcosa, anche con il rischio di andare troppo oltre. E poi c’è quel titolo poetico, che ricorda abbastanza da vicino quella Ballad of the lonely masturbator della poetessa americana Anne Sexton; vi si ritrovano la medesima orgogliosa esibizione del corpo femminile (Goldin è femminista convinta), e quella sessualità conflittuale carica di aspettative che non necessariamente saranno soddisfatte.

Nan Goldin - Self-portrait in kimono with Brian, NYC, 1983 © Nan Goldin
Nan Goldin – Self-portrait in kimono with Brian, NYC, 1983 © Nan Goldin

Le fotografie alternano provocazione e quotidianità, foto intime, tenere, tragiche, commoventi: gravidanze, letti disfatti in appartamenti maltenuti, coppie etero e omosessuali in momenti di intimità o mentre posano per un ritratto, tossicodipendenti nell’atto di infilarsi una siringa nel braccio, donne che hanno subito violenza fisica, esibizione del corpo nudo o vestito, feste sulla spiaggia. È attraverso queste immagini che Nan Goldin racconta l’altra faccia dell’edonismo americano, lontano anni luce dalle atmosfere patinate care a Bret Easton Ellis; si tratta della sua versione popolare, quella che ci si poteva permettere nei quartieri bassi, e gli stessi bazzicati da Rick Moody e Sam Lipsyte, narratori – sulla scia di John Fante e Raymond Carver -, di un’America popolare e sognatrice, abituata a lottare per sopravvivere, e dove il sesso è insieme una valvola di sfogo, un momento di pausa dal grigiore quotidiano, un’avventura necessaria, e una manifestazione dell’ego. Infatti, dopo gli eccessi d’ideologia degli anni Sessanta e dei primi Settanta, spesso sfociati nella violenza, nella seconda parte del decennio il sesso ebbe un nuovo ruolo: non più l’amore in senso cosmico, di comunità universale concepito dagli hippies, ma quello ben più concreto e decisamente individualista di una società ormai irrimediabilmente massificata. The ballad of sexual dependency è un’opera anche di carattere antropologico, riguardandolo a oltre trent’anni di distanza, si intravedono le radici di molte problematiche della società contemporanea, che ha cominciato in quegli anni il suo declino: le fotografie esprimono una bellezza problematica – spesso nata da situazioni conflittuali -, raccontano le bizzarrie dell’umanità a Boston e a New York, luoghi dove Goldin ha vissuto una giovinezza bohémienne affogata nell’alcool e nella droga che le hanno lasciato tracce indelebili, ed è diventata donna, affrontando anche vicende personali dolorose (il suicidio della sorella diciannovenne nel 1965, la morte per AIDS di tutti gli altri familiari così come di molti amici), alle quali, come spiega lei stessa, è sopravvissuta grazie al suo lavoro, che le ha dato la forza di guardare avanti. Su queste basi, si può leggere la sua fotografia anche come un tentativo di metabolizzare la sofferenza, propria e altrui. Siamo davanti a una bellezza autentica, anche se spesso distorta, cercata fra le pieghe dell’esistenza quotidiana, dove l’obiettivo di Goldin si è insinuato con curiosità, senza cercare effetti patinati, anzi lasciando sempre campo alla spontaneità. Da qui, quelle scene a volte anche spiazzanti, comunque cariche di un’energia che arriva dritta allo stomaco e al cuore, senza lasciare indifferenti. Si crea una sorta di empatia con l’osservatore, proprio in virtù dell’assenza di effetti costruiti. L’ambiente urbano resta sullo sfondo, involucro sordido e ingannevolmente luminoso, che accoglie esistenze sbandate, o comunque confuse. Effimeri splendori e durature miserie, crudele beffa di un’epoca che sull’immagine e la trasgressione aveva, ingenuamente, puntato tutto. La sessualità, eterosessuale e omosessuale, di gruppo e onanista, diventa quindi una necessità dell’anima, un momento di intimità in cui trovare protezione contro l’inferno che sta al di fuori.

Nan Goldin -  Twisting at my birthday party, New York City 1980 © Nan Goldin
Nan Goldin – Twisting at my birthday party, New York City 1980 © Nan Goldin

“Life is just a cocktail party on the street”, una frase che riassume lo spirito di quegli anni folli vissuti con l’incoscienza di un’ubriacatura: Nan Goldin li ha vissuti quegli anni ed è anche sopravvissuta per raccontarli. Lo fa senza rimpianti, senza indulgere nel sentimentalismo, senza nascondere i lati oscuri, con la consapevolezza di stare scrivendo il romanzo per immagini di una generazione controversa e problematica, per la quale anche la sessualità si era trasformata in un “paradiso artificiale”, dove l’innocenza se n’è andata da tempo, e resta il dramma esistenziale di chi è alla disperata ricerca di un rifugio sicuro. Sotto questo aspetto, si coglie anche una certa rabbia di fondo scagliata contro tutte quelle istituzioni, politiche e sociali, che poco agiscono per evitare, o almeno limitare, gli effetti di piaghe sociali come l’alcol e la tossicodipendenza, e così come per la gestione dell’emergenza AIDS, che negli anni Ottanta raggiunse purtroppo picchi impressionanti. L’arte non ha soltanto una funzione estetica, ma serve anche per riflettere sulle tematiche sociali. Troppo spesso, invece, il messaggio non arriva, incontrando l’indifferenza della politica. E contro la politica di Reagan – rea di aver favorita la sperequazione sociale e di non aver fornita adeguata assistenza alle fasce più deboli della popolazione -, di fatto si scaglia Nan Goldin, sopravvissuta per caso, così come per caso è riuscita a dare voce a chi è ormai scomparso da tempo.

Tutte le informazioni: http://www.triennale.org/

Nan Goldin -  Couple in bed, Chicago 1977 © Nan Goldin
Nan Goldin – Couple in bed, Chicago 1977 © Nan Goldin

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