La straordinaria vitalità di Beirut nelle opere dei suoi artisti. Home Beirut. Sounding the neighbors in mostra al MAXXI di Roma.
Dopo le mostre dedicate all’Iran e alla Turchia, terza tappa del ciclo focalizzato sull’arte contemporanea mediorientale. Fermata a Beirut, città cosmopolita e vivace fra arte e problematiche socio-politiche, raccontata attraverso 100 opere di 36 artisti. Fino al 20 maggio 2018.
Roma. Incastonato in una scomoda posizione, fra Israele e la Siria, destinato suo malgrado a un ruolo di campo di battaglia fra mondo arabo, mondo cristiano e mondo ebraico, il Libano ha vissuto un gli ultimi cinque decenni fra scontri armati di ogni tipo, dalla guerra civile (1975-1990) alla guerra “indiretta” con Israele dell’estate 2006, che hanno messo a dura prova la tenuta politica del Paese.
E pochi giorni fa, il Primo Ministro Saad Hariri (figlio di Rafīq, assassinato nel febbraio 2005), ha annunciate le proprie dimissioni. Per motivi di sicurezza personale. E il leader druso Walid Jumblatt ha così commentato, come riporta il quotidiano La Repubblica: “Il Libano è un posto troppo debole e troppo piccolo per sopportare le conseguenze di questo scontro”, lasciando immaginare una possibile instabilità nell’immediato futuro. Ma nonostante la difficilissima congiuntura politica, e un recente passato tutt’altro che tranquillo, il Paese e la sua capitale vantano una vitalità creativa non comune, che si traduce anche e soprattutto in una forma di resistenza civile alla tragedia della guerra, alla corruzione del potere, al fanatismo religioso: a tutto ciò, artisti, scrittori, intellettuali e cittadini comuni, rispondono con una stoica sopportazione che non è rassegnazione, ma diventa voglia di riscatto, di pace, di pensiero.
Questa è una città dove si assiste al “miracolo” della convivenza, una città splendidamente viva, tollerante, aperta a sollecitazioni da ogni parte del mondo. Beirut è infatti una sorta di oasi civile, e questo ha fatto sì che, subito dopo la fine dei combattimenti del 2006, la città sia divenuta un centro di attrazione, registrando importanti flussi migratori in entrata: ad attrarre libanesi e non solo, il fermento culturale che ha avuta un’impennata anche a seguito della nascita della Beirut Art Fair, e l’apertura di nuovi musei.
La mostra Home Beirut. Sounding the neighbors, curata da Hou Hanru e Giulia Ferrucci, consta di una molteplicità di opere, dalla pittura alla video arte, dal disegno all’sitallazione, e si interroga su appartenenza, identità, coabitazione, memoria, così come sono stati elaborati a Beirut, vera e propria “città-laboratorio”, da secoli abituata alla presenza di culture diverse, stante la sua posizione di “cerniera” fra l’Oriente e gli ultimi avamposti occidentali, fossero i fondachi veneziani del Cinquecento o i caffè letterari del primo Novecento, così come i grandi alberghi dell’epoca recente, incastonati in una millenaria cultura islamica, ma anche ebraica.
Nonostante l’eterogeneità culturale, Beirut è percepita come una “casa” dai suoi abitanti, ormai amalgamati in una comunità culturale che in Medio Oriente non ha eguali.
Quattro le sezioni che compongono la mostra, ognuna delle quali declina una differente sfumatura della città di Beirut intesa come “casa”: la prima, Home for memory, è legata alla memoria della guerra civile e del conflitto del 2006 con la Siria. Emerge, dolorosa e stridente, la contraddizione fra la volontà di conservare la memoria degli avvenimenti (costati la vita a decine di migliaia di libanesi), e la determinazione a ricostruire un futuro accettabile. A metabolizzare il passato, un’ironia pungente e struggente insieme, come avvertibile nel disegno a inchiostro di Mazen Kerbaj, dedicato alla guerra dell’estate 2006.
Una paradossale slot machine suggerisce l’idea di una città di frontiera, ma anche di fronte, dove i lunghi anni di guerra fanno sentire ancora oggi i loro effetti sulle abitudini di vita dei libanesi, che paradossalmente hanno stretto ulteriormente il rapporto con la città e il sentimento di appartenenza ad essa.
Beirut come “città-casa”, dove si moriva con facilità, dove la vita è stata per un po’ un gioco d’azzardo, dove lo scenario quotidiano era fatto di bombe e rovine. Più filosofica Collapsing clouds of gas and dust (2014) di Vartan Avakian, serie di cristalli artificiali creati con detriti recuperati da un edificio che durante la guerra era usato come postazione di tiro; una metafora della storia che, come la polvere, si sposa e si solleva a intervalli quasi regolari e che, sinistramente, sembra confermare le recenti parole di Jumblatt. La dimensione più intima di questa dura esperienza, è toccata nell’opera video Measures of distance (1988) di Mona Hatoum, che trovandosi a Londra nel ’75 allo scoppio della guerra, non riuscì a tornare in patria e quindi racconta nel video le telefonate alla madre lontana, le lettere a lei scritte e da lei ricevute; un’opera commovente, sulla difficoltà di vivere gli affetti familiari in situazioni del genere.
Dalla conservazione della memoria, alla necessità di costruire una “casa” per tutti coloro che giungevano in città; a Beirut vi si trovano i discendenti dei profughi armeni del 1915, iraniani in fuga da Khomeini dopo il 1979, palestinesi, siriani, ognuno in cerca di un futuro di pace; per questo, Home for everyone? è il titolo della terza sezione, con la città intesa come luogo di aggregazione e convivenza civile, un luogo dove poter ripensare il futuro e il destino dell’intera comunità, dove interrogarsi sul senso dell’esistenza, anche alla luce delle tragedie che essa può riservare. Le vicende storiche hanno spesso creati lunghi intermezzi tragici, ma la città non hai mai smesso di accogliere i profughi, e nel tempo si è creata una comunità eterogenea ma ben amalgamata; Remembering the light (2016), del duo Hadjithomas&Joreige è una riflessione concettuale sulla migrazione, intesa come destino umano affidato al flusso della storia, qui rappresentato dalle correnti marine.
Un’opera che richiama al dovere civile dell’accoglienza, all’apertura verso le altre culture, e che lascia pensare a Beirut come a un porto sicuro dalle tempeste della vita. E paradossalmente, l’utopia si è realizzata, nemmeno la guerra civile è riuscita a distruggere il clima di tolleranza e concordia che caratterizza la città. Con la terza sezione, Home for remapping, la riflessione si apre al soggetto città, da un punto di vista urbanistico e architettonico, come è cambiata a causa delle distruzioni belliche, della nuova espansione edilizia e delle problematiche ambientali: Marwan Rechmaoui ha realizzato Beirut Caoutchouc (2004-6), una grande planimetria della città in caucciù, su cui il pubblico può camminare.
Un modo per suggerire la possibilità di intervenire su questo grande laboratorio a cielo aperto che è Beirut. Più caustica Caline Aoun, che in Shipping container floor (2016, calco del fondo di un container), apre il dibattito sull’eccessiva apertura al capitalismo globale che rischia di snaturare l’identità cittadina.
>> La mostra si chiude con la sezione Home for joy, che vuole dimostrare la grandezza umana della città ed essere un auspicio per il futuro. Qui si racconta la bellezza che gli artisti libanesi hanno saputo produrre sotto i bombardamenti e in mezzo alle macerie: simbolo di tutto ciò, Entre les ruines, il video che Sirine Fattouh ha realizzato nel 2014, in un vicino villaggio ancora semidistrutto: questa danza fra le rovine, come da titolo, suggerisce l’idea dell’arte che, come l’Araba Fenice, risorge dalla cenere delle distruzione, porta un lampo di bellezza e di speranza in quei luoghi dove in pochi penserebbero anche soltanto a immaginarla.
Beirut ha resistito, ha danzato e danza fra le macerie, e le sta lentamente trasformando nelle solide mura di una casa accogliente e libera. A dispetto delle logiche fuorvianti del potere politico.