Chissà se siamo ancora un popolo di poeti, di santi, di navigatori. Forse anche di bevitori, ma un po’ meno: eccoci pronti ad alzare il sopracciglio supponente verso certi cugini nordeuropei, inglesi, irlandesi, russi e simili, a torto o a ragione considerati troppo facili alla sbronza superalcolica. Se così si presenta il contesto italiano -venato di moralismo- il mercato degli alcolici è peraltro in ribasso, come evidenziato da una recente ricerca Nielsen: nel decennio 2005-2015 si rileva un calo dei consumi di liquori (-30%), distillati (-17%) e cocktail (-31%). Andando un po’ più a fondo nelle analisi e intervistando gli operatori del settore, si scopre poi che i consumi non solo diminuiscono ma cambiano: alla domanda “sballarsi di alcol è trendy?” sempre più consumatori rispondono di no, e nel contempo cresce il numero di coloro che vogliono prodotti da meditazione, di alta gamma, privi di additivi e coloranti, provenienti da liquorifici/distillerie artigianali.
Alcolici della fascia “superpremium”, insomma, che difficilmente si trovano a meno di trenta euro, e che si caratterizzano per uno stile sensoriale libero dalle imposizioni della produzione di massa. Meno industria e più artigianato, in altri termini, e chissà che questo non valga anche per il mercato del whisky, un settore che ha le sue schiere di appassionati anche in Italia.
Prima di affrontare l’argomento, però, conviene introdurre almeno una summa divisio delle tipologie: lo scotch whisky si differenzia dal whiskey americano, per una serie di importanti fattori. Ne parlo con Jonathan Lax, Manager & Product Expert di LMDW, una fra le più importanti “Maison du Whisky” della Francia.
Per gusto e profilo aromatico, quali sono le differenze fra whisky scozzese e bourbon whiskey americano?
“La principale è che lo scozzese è di solo orzo maltato, laddove il bourbon viene da una miscela: mais, segale e orzo maltato. Inoltre il cosiddetto ‘rye’ può essere al 100% di frumento ma anche di segale/orzo. Le altre differenze dipendono dalle scelte della distilleria e dalla tradizione del luogo dove i cereali vengono distillati.
Al naso, il bourbon whiskey si presenta più morbido, meno spigoloso dello scotch, e con note aromatiche lievemente fumé, di vaniglia, di tannini del legno e di spezie. Quest’ultime si ritrovano anche nel rye, insieme ai sentori derivanti dal tipo di botte usata per l’invecchiamento. Tra le due tipologie, quello un po’ più secco è il rye.”
In quali paesi europei il bourbon/rye è maggiormente apprezzato?
“Si vende bene soprattutto in Regno Unito, Germania e Francia. Ciò accade per una serie di motivi, tra cui la presenza di basi militari americane per oltre cinquant’anni, che ha facilitato l’importazione di prodotti da oltreoceano e quindi incuriosito i consumatori locali. In particolare in Francia, uno dei maggiori mercati mondiali per il whisky, l’auspicio è che ci sia spazio per tutte le differenti espressioni di gusto che l’America può offrire: le distillerie che esportano da noi sono numerosissime, l’assortimento e la qualità a disposizione dei francesi è di alto livello, e allora perché non assaggiare e confrontare i diversi approcci, al di qua e al di là dell’Atlantico?”
Per andare dall’astratto al concreto, parliamo di ‘Dad’s Hat’, una piccola distilleria di Bristol, Pennsylvania. La sua filosofia di produzione?
“I fondatori di ‘Dad’s hat’ si rifanno alla tradizione del tipico rye whiskey ‘Pennsylvania-style’, che ha più di duecento anni di storia ed è ben noto in tutti gli stati dell’Unione per il suo sapore inimitabile. Una delle caratteristiche comuni a molte delle distillerie artigianali dello stato è la contiguità fra campi di cereali e impianto di distillazione: il produttore vuole conoscere al meglio la materia prima con cui lavora. Uno dei prodotti più amati negli States è il Dad’s Hat Straight Rye Whiskey, lanciato di recente anche in Europa con ottimi riscontri. Per me è perfetto se bevuto liscio o con ghiaccio, ma vedo che ha grande successo anche nel classico ‘Manhattan’, un cocktail rye-vermut, con una goccio di angostura e una ciliegina al maraschino.”
Ed ora due parole su un grande bourbon whiskey: il Widow Jane Straight 10 years old single barrel.
“La distilleria Widow Jane, nello stato di New York, offre ai cultori della materia questo bourbon perfettamente equilibrato. I produttori sottolinenano che è l’acqua, usata per ridurre la gradazione fino a 45,5, a conferire al bourbon il suo carattere unico: proviene dalle fonti di proprietà della Widow Jane situate a Rosendale, e sgorga dopo aver attraversato il filtro naturale delle rocce calcaree del luogo.”
Ma come farete a convincere i consumatori italiani, oggi più che mai alla ricerca del distillato di qualità, che i vostri rye /bourbon whiskeys sono all’altezza dei migliori scotch e rum presenti sul mercato?
“La sfida è appassionante, in effetti: far capire che c’è posto per un prodotto nuovo, con una personalità tutta sua. Per il momento non possiamo ancora offrire alcolici che, per invecchiamento e maturazione, possano competere con gli scotch whiskys e i rum più affermati sul mercato, ma le cose cambieranno con gli anni. Di sicuro, abbiamo la convinzione che gli aromi e i sapori dei nostri whiskeys non si sovrappongono al già noto, ma rappresentano una piacevole sopresa per chiunque voglia affrontare un territorio inesplorato.”
La curiosità come leva di marketing, insomma: l’ottimismo del Manager di LMDW, Jonathan Lax, si nutre proprio di questo. Anche l’importatore italiano di questi “nuovi” whiskeys, ossia la Velier spa di Luca Gargano, sembra condividere l’entusiasmo, tant’è vero che gli dedica una sezione del suo sito internet. E io non posso che accodarmi: avendo prima assaggiato sia il Dad’s Hat Straight Rye Whiskey che il Widow Jane Bourbon 10 years old, mica per sentito dire.
In definitiva, LMDW e Velier possono dare negli anni il loro contributo ad un passaggio epocale -dalla sottomissione al sapore industriale alla liberazione del gusto, grazie alla sapienza artigianale: meritano quindi gli auguri più sinceri, per quest’impresa.