Critici e storici dell’arte, artisti, galleristi, collezionisti, operatori culturali dicono la loro sulle ultime novità e sul futuro del museo romano
A rivitalizzare un fine anno che per il mondo dell’arte pareva presentarsi con gli ormai abituali toni sommessi sono giunte le deflagranti novità per la scena museale romana, annunciate con una conferenza convocata quasi in segreto il 21 dicembre dal Vicesindaco con delega alla Crescita Culturale di Roma Luca Bergamo. Il titolo? “Un nuovo Macro per il sistema dell’arte contemporanea di Roma”. I contenuti dei diversi interventi hanno dato la stura a un susseguirsi frenetico di articoli sui media (anche Artslife ne ha già parlato), dove i temi al centro della questione sono stati sviscerati in ogni direzione, anche se – a dire il vero – nell’occasione della conferenza e nel successivo comunicato sono stati soltanto grossolanamente accennati, lasciando moltissimi aspetti indefiniti, il che rende le attuali prese di posizione alquanto premature. Al centro dell’attenzione, come si evince dal titolo, c’è la ridefinizione dell’identità del Museo MACRO, “anche rispetto al rapporto sinergico” – si legge nel comunicato – “che questo spazio avrà con il sistema dell’arte contemporanea di cui fanno parte il MAXXI e la Galleria Nazionale e i tanti operatori del settore in città”. Il museo “farà parte del nascente Polo del Contemporaneo e del Futuro”, precisa il documento, Polo il cui motore “sarà l’Azienda Speciale Palaexpo, che dal prossimo 1° gennaio metterà in connessione il Palazzo stesso con il MACRO Museo di arte contemporanea di Roma e con il Mattatoio”. Fin qui i dati salienti sul piano “strutturale”: rispetto ai quali però mancano informazioni fondamentali per poter giudicare l’operazione: quali saranno i rapporti fra le 4 strutture coinvolte? Chi sarà il Presidente, chi il Direttore Generale? Quale autonomia avrà la struttura? Chi gestirà mostre e allestimenti? Quale sarà la gestione della collezione? Nulla chiarito di tutto ciò.
Quello che invece viene un po’ meglio analizzato – ed è ciò su cui si sono concentrate le prese di posizione – è il progetto sperimentale MACRO Asilo, che a partire da ottobre 2018 proporrà “un grande dispositivo d’incontro con e per la città, accogliente, immerso nel suo territorio aperto e permeabile a chiunque faccia pratica artistica. Sarà uno spazio ospitale, residenziale – dove stare più che visitare – utilizzabile, produttivo, leggero, polidisciplinare. Uno spazio relazionale dove ripensare l’incontro tra gli artisti e la città. Per questo è stato deciso che l’accesso al museo sarà gratuito per tutti”. Un progetto sperimentale “che reinventa il museo, come una realtà di produzione e trasformazione culturale oltre la dimensione espositiva” – continua il comunicato – “ideato da Giorgio de Finis, che ne assume la direzione artistica”. Ed è questo dato che ha guadagnato le pressoché esclusive attenzioni dei commentatori: visto che de Finis, l’ideatore sempre a Roma dell’esperienza del MAAM, è stato assunto a “nuovo direttore del Macro”, fatto che però contrasta con quanto annunciato. Ed il suo lavoro al Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz è stato subito proiettato sul futuro di tutto il MACRO, quando invece non sono per nulla chiari i ruoli di MACRO Asilo con l’intera struttura, e comunque i primi passi si vedranno solo fra poco meno di un anno. Quello che invece nessuno ha notato coinvolge piuttosto chi ha gestito finora le politiche culturali e museali romane: con un museo costato 27 milioni di euro della collettività, nato con ambizioni di competere con le principali strutture internazionali, con il coinvolgimento di una archistar come Odile Decq, e che ora – dopo anni di declino e di gestione dimessa – viene rimpallato a destra e a manca senza prospettive virtuose, e fatto sede di un progetto sperimentale per il quale le location utili potevano essere molte altre e meno sontuose.
Noi, dopo che gli animi si sono un pochino acquietati, abbiamo raccolto una serie di opinioni di critici e storici dell’arte, artisti, galleristi, collezionisti, operatori culturali: ve li proporremo con una serie di articoli nei prossimi giorni, a partire da oggi…
Duccio Trombadori – Storico dell’arte
Sinceramente, non seguo più le vicende di un luogo come il Macro che io non avrei mai aperto, perché non si aprono dispendiosi circenses quando ci sono da fare strade, giardini, parchi pubblici, marciapiedi ed altri servizi di base. Anche adesso qualche chiacchierone vuole continuare a spendere soldi inutilmente per fare ‘arte sociale’ che serve solo ad incrementare la scemenza collettiva. È un tassello che si aggiunge all’andazzo di tutte le amministrazioni comunali, passate e presenti, tutte più o meno indirizzate alla ricerca di ‘fare scena’ piuttosto che ‘fare utile’ alla città. Per questo si è preferito mettere festoni ‘para-artistici’ (dal Macro al Maxxi, per non dimenticare oltre al Comune anche lo Stato) scimmiottando quanto accaduto in altre città europee dimenticando di mettere nel giusto e privilegiato valore il vero patrimonio culturale romano (da Roma antica al barocco al Novecento) che è la vera risorsa della città. I risultati si vedono: i ‘musei del contemporaneo’ sono cattedrali senza pubblico, e per farla strana a Palazzo Altemps i busti di Cicerone vanno a braccetto con le ceramiche di Fornasetti. Al peggio non c’è mai fine. L’ignoranza regna sovrana, va di pari passo al cattivo gusto, e l’onore artistico di Roma si dissolve nel puzzo della mondezza non riciclata. Rimpiango Bottai, Piacentini e la Roma di Mussolini…
Pablo Echaurren – Artista
Il Macro-Asilo si predispone ad essere un museo- macchina celibe, un dispositivo aperto, alimentato da flussi di desiderio in cui non avranno corso i normali e abituali balletti di spartizione e accaparramento dello spazio pubblico. Per dirla con Hakim Bay, Giorgio de Finis instaurerà una vera e propria TAZ: una zona temporaneamente autonoma, impermeabile alle logiche commerciali, ai successi compiaciuti di sé, alla legge del prezzo che determina il valore (e non viceversa). Sarà dunque un luogo di libertà e sperimentazione. Di integrazione tra il dentro e il fuori, tra artisti e società, una sorta di terra di nessuno e di tutti. Una scommessa, una sommossa.
Massimo Mazzone – Scultore Docente di Scultura Accademia di Brera
Il tema rimosso è quello dell’eredità dell’Ottocento colonialista eurocentrico quando parliamo di Museo. Il Museo Pubblico e specialmente quello d’Arte Moderna e Contemporanea, lo intendiamo nel significato di dispositivo culturale per la raccolta la conservazione e l’esposizione dei prodotti culturali rilevanti di una società, cioè una rete nella quale convergono raccordandosi molte componenti per la costruzione di un immaginario condiviso. Istituzionalmente spetta proprio al Museo di fornire una casistica paradigmatica delle nozioni di ‘arte’, ‘artista’ e ‘opera’… investito com’è di una autorevolezza che che si suppone disinteressata, il Museo ha infatti il compito di solennizzare ciò che di significativo transita nel circuito istituzionale e fuori di esso. Dunque, lungi dal recepire meccanicamente dall’esterno una narrazione e rappresentarla, il Museo la struttura, suggerisce interpretazioni, organizza gerarchie di valori impone in modo ineludibile su tutto ciò che al suo interno viene esposto, una cornice (fisica e morale) entro cui traguardare ogni fenomeno. Infine è una struttura basilare del mondo occidentale borghese e liberal-democratico, che lavora alla coesione sociale attraverso la costruzione e la trasmissione di una memoria collettiva condivisa diretta alla trasmissione di valori simbolici. Quindi, non un contenitore con una biglietteria né una trappola per turisti, il Museo è lo spazio Pubblico che rappresenta la società in tutte dico tutte le sue componenti. Esporre nel Museo dovrebbe andare di pari passo con produrre l’arte di oggi che sarà nel Museo domani e allo stesso tempo, studiare, sistematizzare fare ‘ricerca’ sul bagaglio artistico passato presente e futuro. Quindi Scuola, Università, Rassegne Internazionali e Museo partecipano allo stesso processo, che piaccia o no.
I Musei nazionali, le Esposizioni Universali, le Olimpiadi, le grandi rassegne internazionali come la Biennale di Venezia ad esempio, nascono in seno al colonialismo europeo Ottocentesco. E sopravvivono nell’era della globalizzazione con antiquati padiglioni nazionali e nessuno ha nulla da obiettare, almeno ad alta voce. Tutte queste Istituzioni che ancora oggi sopravvivono, polverose magari, ma ricche perché sostenute da ingenti risorse (Pubbliche), continuando a celebrare al medesimo tempo, sia lo Stato nazione che le gigantesche forze economiche e finanziarie internazionali globalizzate.
A Roma non sappiamo bene perché, si è incrinata una tessera del puzzle. Il MACRO sarà diretto da una figura radicalmente differente da qualsiasi storico dell’arte o curatore. Un tipo diverso di Museo si profila all’orizzonte, votato a processi sociali. Le attività sappiamo inizieranno nel prossimo Autunno ma già sono partite delle campagne di stampa dai toni inquietanti. Inquietanti, perché a mio avviso troppo accesi, rispetto al silenzio tombale su troppe e pluriennali politiche governative devastanti su Scuola Università e Ricerca, su Ministri non laureati all’Istruzione, sul trattamento riservato ai nuovi schiavi, ai nuovi conclamati Untermensch e sui frutti della crisi, non ostante Documenta 14 e l’impareggiabile Auschwitz on the Beach di BIFO, o sul trattamento ricevuto in generale dai monumenti e dal paesaggio, in definitiva, davanti a tutte le contraddizioni presenti in Italia Europa e Mondo, tanto clamore su un fatto ‘locale’, mi fa riflettere. Quello che è accaduto al MACRO di Roma alimenta polemiche tra certi addetti ai lavori, come se un alieno fosse sbarcato sulla terra. Cosa fa storcere il naso? È la nomina di un antropologo proveniente da una attività politica e sociale di lotta quale quella del Metropoliz-Maam a risultare un boccone indigesto per qualche specialista?
Lesa maestà o cos’altro? Cosa si teme in definitiva? Che i BPM (Blocchi Precari Metropolitani) e gli abitanti dell’occupazione del Metropoliz, Lumpenproletariat, poveri, italiani e stranieri e Rom, tutti politicizzati, entrino a pieno titolo nella ‘cittadinanza culturale’ di Roma? Quello che non è accettabile è che le praxeis dei Lumpen e degli outsider abbiano la loro produzione culturale riconosciuta e incaricata di disegnare un paradigma nuovo? Avverto del classismo d’altri tempi in molte cose che ho letto in questi giorni, un’aporofobia disgustosa. Credo che Giorgio de Finis sia chiamato a sperimentare per ridefinire ampliare sviluppare qualche nuova forma di fare museo. Molti avrebbero preferito un concorso pubblico, magari cucito su misura, l’importanza è salvare la forma, o no? Invece, un Assessore capitolino, ha optato assumendosene la responsabilità, per un incarico diretto. Dov’erano i detrattori di Giorgio de Finis quando altri Assessori, costruivano ad Affile lo scandaloso Sacrario al Maresciallo Graziani che solo la Magistratura ha saputo dopo anni poi fermare? Dov’erano con L’Aquila in macerie e gli affaristi a ridere delle salme? Dov’erano, davanti all’Art. 5 del Piano casa? Dov’erano davanti al Mediterraneo trasformato in una necropoli liquida? Il lavoro di Giorgio de Finis non è ancora iniziato quindi bisognerebbe almeno aspettare di vedere qualcosa prima di fomentare una patetica caccia alle streghe.
Va tutto bene, basta che non si venga a parlare di novità, l’Istituto Svizzero fa questo da anni, open day, i muri sbiancati, adulti e bambini, artisti e non, si esprimono liberamente. Giorgio Grasso, più o meno supportato da Sgarbi, nel 2014 con la sua Biennale su Facebook, portò 20.000 persone per 6 mesi ad autopromuoversi seguendo il principio dell’autodeterminazione. E poi, questo discorso della periferia contro il Centro…stiamo ancora al voler buttar giù dalla Torre la borghesia, l’establishment, ai tempi delle occupazioni e autogestioni degli anni 70? Dobbiamo ancora aver il problema ad essere preparati, ad aver investito la propria vita in ciò che sia ama, perché risulta troppo borghese? Per cui tutti zitti! Un bando avrebbe impegnato ottimi curatori fermi da anni perché le casse del Comune sono chiuse o vuote da anni, niente mostre importanti, collettive, musei vuoti. Scrivere progetti significava che, anche se non realizzati per il Macro, avrebbero potuto esserlo in altro luogo o in altro tempo. Questa scelta, da parte di Bergamo, ha solo impoverito la città, ma questi signori che siedono al Campidoglio e che ci hanno rotto i timpani per mesi e mesi con i loro slogan, come in altri tempi e per altri, predicano bene e poi razzolano molto male.