Grace Jones: Bloodlight and Bami, un viaggio attraverso la carriera, la musica e la vita privata di Grace Jones. Icona Pop per eccellenza.
«115 minuti? E che ci devono far vedere mò?» così commenta qualcuno in sala a inizio film. Ma fidatevi, una volta finito… Ne vorrete ancora. Grace Jones è una sopravvissuta agli anni ’80, ai fantasmi di un’infanzia tutt’altro che facile, alla Jamaica. È sopravvissuta a se stessa.
Grace Jones: Bloodlight and Bami, dopo esser stato presentato in anteprima italiana allo scorso Torino Film Festival, arriva sala come uscita evento il 30 e 31 gennaio grazie a Officine UBU. Si dice sempre “uscita evento” da quanto le case di distribuzione cinematografiche hanno adottato questa forma di uscita limitata (soprattutto per documentari e anime, la “scuola Nexo”, potremmo dire). E si cita il distributore (o l’editore) solo quando ti fanno andare al cinema gratis o ti mandano il libro in omaggio. In questo caso è doveroso invece segnalare -e ringraziare- chi ha reso disponibile l’arrivo in sala di questo documentario, ovvero Officine UBU, perché si tratta davvero di un evento.
È un evento che arrivi al cinema un documentario musicale così bello, coraggioso, estremo e lontano dal gusto mainstream (in quanti andranno al cinema solo perché si ricordano di quella che cantava la versione dance de La Vie En Rose? E, soprattutto, in quanti se ne ricorderanno? Pochi, purtroppo). Va quindi riconosciuto il merito a chi fa di un mestiere una missione, e fa scelte coraggiose che premiano la qualità a dispetto dei numeri (sempre più preoccupanti). Grace Jones: Bloodlight and Bami è un documentario per veri fan.In questo bellissimo viaggio che è Grace Jones: Bloodlight and Bami Sophie Fiennes, la regista, segue Grace Jones su tre piani diversi della propria esistenza: la lavorazione in studio del suo ultimo album (e parliamo di Hurricane, 2008), le performance live di due concerti registrati lo scorso anni a Dublino appositamente per questo documentario, e i momenti privati con la famiglia in Jamaica.
Le sequenze musicali si accostano così a riprese più intime e materiale personale per ritrarre la persona che si nasconde dietro la maschera indossata dall’artista sul palco. Selvaggia, androgina, irrequieta, mai sola.
Il documentario tratteggia un profilo inedito di Grace Jones: amante, figlia, madre, sorella e nonna. Sempre senza filtri.
Performance inedite dalle sue canzoni più famose come Slave To The Rhythm e Pull Up To The Bumper, ma anche brani autobiografici e più recenti come Williams’ Blood, This Is e Hurricane (che fa da contrappunto ai titoli di coda). Questi brani ci accompagnano nel racconto del viaggio che Grace Jones ha intrapreso attraverso la Giamaica, sua terra natia, assieme al figlio Paulo e alla nipote Chantal. Qui vengono mostrate le radici famigliari e viene raccontata la storia della sua traumatica infanzia. Grace e i suoi fratelli, Chris e Noel, sono stati cresciuti per diversi anni dal nonno putativo Mas P, un uomo violento e autoritario: Grace con il tempo ha imparato a pensare al passato come a un’esperienza formativa da cui trarre una lezione e un ricordo da esorcizzare. Nel frattempo, la sensualità dell’isola e il suo splendore tropicale hanno iniziato a risuonare potenti in Grace, risvegliando in lei un’insaziabile fame di vita. E nelle riprese di Sophie Fiennes la natura giamaicana e la musica di Grace Jones si sposano in un connubio perfetto.
>> In giamaicano il termine ‘Bloodlight’ si riferisce alla luce rossa che si illumina quando un artista è impegnato in una registrazione in sala d’incisione, mentre il termine ‘Bami’ fa riferimento alla focaccia giamaicana fatta con farina e tapioca, ossia un alimento simile al pane e che simboleggia la sostanza della vita.
La pellicola alterna momenti di vita in Giamaica e frammenti di vita pubblica e privata di Grace Jones. L’artista viene ritratta tra Tokyo, Parigi, Mosca, Londra e New York, o ancora in sala di registrazione assieme al duo giamaicano, nonché collaboratore storico, Sly and Robbie. Punto fermo di Bloodlight and Bami è il palcoscenico, cuore pulsante del film. È lì che la performance prende vita. Un processo di creazione e messa in scena che Grace Jones segue in maniera maniacale, dal trucco ai costumi (innumerevoli le maschere e i cappellini). Grande momento di frustrazione per lei l’ospitata in un programma televisivo francese in cui viene fatta esibire circondata da ballerine in babydoll “sembro la maitresse di un bordello!” sbotta sull’orlo di un esaurimento.
Si parla molto dell’infanzia, ma non c’è un’intonazione nostalgica. È un percorso di analisi che dà una chiave di lettura per comprendere meglio la figura della performer che Grace Jones impersona sul palco – i testi, i temi, le suggestioni.
Love Is The Drug fa da sottofondo all’unica scena che strizza davvero l’occhio al passato: l’incontro con il fotografo francese ed ex compagno Jean Paul Goude, creatore di alcune delle copertine più iconiche dei suoi album: Island Life, per esempio.
La pellicola ha il grande merito di raccontare la musica di Grace Jones oggi. I tempi delle hit e delle classifiche sono lontanissimi, ma Grace Jones è un’artista viva e potente. L’ultimo album, uscito ormai 10 anni fa (Hurricane, autoprodotto non senza fatica, come si vede nel documentario), suona oggi più moderno che mai. Le più giovani hanno molto da imparare da una personalità di questo calibro e di tale integrità. Non c’è traccia di filmati nostalgici in stile Istituto LUCE, pochi accenni ai tempi della disco music e dello studio 54.
Il documentario indaga chi è Grace Jones oggi. E oggi, forse più di ieri, Grace Jones è una forza della natura.
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