Arcimboldo: prosegue fino all’11 febbraio la mostra a Palazzo Barberini.
Ci sorprendiamo a contemplare, assorti, un singolare dipinto cinquecentesco. Ne sbirciamo il titolo: il Bibliotecario, una delle celebri “teste composte” di Giuseppe Arcimboldi, meglio conosciuto come Arcimboldo (Milano, 1526 -1593).
E’ un ritratto fatto, analogicamente, di libri rilegati disposti con sapienza a simulare un’incongrua foggia anatomica ed è avvolto, parzialmente, in un ampio, prezioso tendaggio.
Cogliamo, catturati, la forza evocativa della composizione sommaria e la cura certosina del particolare: sta all’occhio mobile del riguardante decidere se godere del gioco illusionistico d’insieme o piuttosto, se rincorrere il ricercato virtuosismo dei dettagli. Andiamo d’acchito col pensiero – è inevitabile – alle composizioni meccaniche, poeticamente cubiste di Fernand Léger.
Furono – ci risulta – proprio le avanguardie a trarre il manierista milanese dall’oblio dei secoli: i dadaisti e i surrealisti lo considerarono un progenitore. Ma si occuparono di lui anche la Gestaltpycologie, coinvolta da pionieristiche indagini sulle cognizioni percettive e sulle illusioni retiniche, e la lambiccata speculazione semiologica: Roland Barthes, che lo definì “retore e mago” , negli anni ’70 gli dedicò un denso e brillante saggio critico. Ora l’occasione di apprezzarlo “dal vivo” la cogliamo all’istante recandoci a Palazzo Barberini dove, nelle stanze del pianterreno, è stata finalmente allestita la sua prima mostra romana. Dalla sua scarna biografia apprendiamo che si formò artisticamente al seguito del padre, anch’egli pittore, nella Veneranda Fabbrica del duomo di Milano, e che all’età di trentasei anni andò a cercare fortuna – e la trovò – alla corte imperiale degli Asburgo, uno scintillante coacervo di sapienza e mondanità –prima a Vienna e poi a Praga- e vi rimase venticinque anni per poi tornare definitivamente in patria, circonfuso di fama e di successo. Annotiamo che la scena artistica milanese fu dominata – per gran parte del secolo – dallo stile e dalla scuola di Leonardo che vi trasmisero una passione per l’osservazione e per lo studio della natura, anche della natura umana fin nei suoi aspetti più mostruosi e grotteschi: Leonardo, lo ricordiamo, fu anche un abile caricaturista.
Vi fiorivano inoltre, nel segno dell’eccellenza, le arti applicate; e le corti europee commissionavano d’abitudine ai rinomati laboratori milanesi raffinati oggetti di lusso: ori, gioielli, sete, bronzi arricchivano strabilianti, microcosmiche Wunderkammern dove Naturalia e Artificialia coesistevano affastellati in una sorta di ideale eden cortese. Lo stupore della scoperta delle Americhe e dei grandi viaggi esplorativi deve aver contribuito non poco ad alimentare il diffuso senso di meraviglia di quei tempi. Ed è questo l’humus che ha favorito la sorprendente arte di Arcimboldo rinomata soprattutto per le celebri opere “viennesi”: i cicli delle Stagioni e degli Elementi, due serie di ritratti composti, eccentrici incastri di alchimie simboliche e di icastici rimandi metonimici.
E per le ludiche “teste reversibili” – come Il Cuoco o L’Ortolano, entrambe in mostra – che, ruotate, mutano forma e sostanza, a ricordarci, non senza un pizzico di sapienza ermetica, il carattere eminentemente relativo di ogni punto di vista . E’ artista soltanto colui che sa creare un enigma da una soluzione, aforizzava argutamente Karl Kraus nel lontano e munifico scorcio di una Vienna sognante.
ARCIMBOLDO
A cura di Sylvia Ferino-Pagden
20 ottobre > 11 febbraio 2018
Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini
Via delle Quattro Fontane 13, Roma