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Flânerie e collezionismo a Roma. In dialogo con Giuseppe Garrera

Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club) Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)
Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)
Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)

L’incontro con lo storico dell’arte, curatore e collezionista Giuseppe Garrera apre le attività del club FraMmenti, a Palazzo delle Pietre, nel cuore di Roma

Palazzo delle Pietre, nel cuore di Roma, è un luogo ibrido, così come voluto dalla famiglia Mazzi che lo possiede: dimora di lusso, ma anche straordinaria galleria di reperti archeologici e punto di riferimento del mecenatismo contemporaneo. Il suo giovane club, FraMmenti, ha aperto il ricco programma di attività culturali del 2024 con un incontro sull’“Eterna scoperta del visibile e dell’invisibile”. Clara Tosi Pamphili, storica e critica delle arti applicate, ha introdotto alla fruizione il mirabolante racconto dello storico dell’arte, curatore e collezionista Giuseppe Garrera. Un racconto intimo e mosso, dalle iniziali impressioni romane alla febbre dell’accumulo, sulle orme del suo testo recentemente pubblicato “Collezionismo di strada. Passaggi e derive per la città di Roma in cerca di tesori”.

Durante l’incontro di giovedì ci hai parlato molto del tuo rapporto con il mercato di Porta Portese, dalle prime flânerie mattutine, alle escursioni notturnali, assai più fruttuose per la tua collezione di tesori. In letteratura non si contano coloro che hanno descritto ciò che si avverte inoltrandosi in un mercato. Penso all’incipit dell’“Amante del vulcano” di Susan Sontag e penso anche ad un autore italiano poco conosciuto, nato alla fine del XIX secolo, che è Giorgio Vigolo, il quale nel suo “Le notti romane” (1960) racconta storie onirizzate, vaporose e metafisiche tutte intorno alla Città Eterna. In un passo del suo testo afferma: “Questa è la funzione della bancarella dove la sorte stessa diventa una bibliomante, bizzarra quanto ispirata, una specie di sonnambula, bendata come la fortuna dev’essere, che ci fa le carte”. Quanto peso ha la fortuna, quanto l’esperienza e quanto l’intuito nel ritrovare, tra tanti oggetti, il vero tesoro per un collezionista?
Ho sempre pensato che conti una devozione. Si va nella notte al mercato come a recuperare regni dispersi, d’intelletto e di storie e di vite, interi territori d’esistenze. È una pratica con i defunti, le dismissioni, lo svuotamento di case, la cacciata delle cose, e dunque ci si può ritrovare facilmente a riparare torti, ma soprattutto a recuperare beni come legittimi eredi: la legittimità (che i profani possono chiamare fortuna) è data appunto dall’essere stati devoti. Si è ricompensati per la dedizione alle macerie, ai rifiuti della notte e alle solitudini delle albe.

Una bellissima impressione che ci hai raccontato è quella che Roma sia attraversata da un vento mistico, grazie alle statue dei santi e degli angeli del Bernini, che sembrano scosse da una tempesta anche in una calma giornata di sole. Come se avessero vita propria, in linea con la logica di Warburg che al movimento del drappeggio corrisponda una caratterizzazione psicologica. Un poeta francese, Francis Ponge, nel suo libro di poesie “Le parti pris de choces”, descrive gli oggetti come animati da quella che si può definire “allegria materialista”. Durante le tue passeggiate romane, oltre alle statue ravvivate dal misticismo, ti è mai capitato di avvertire che la merce dei mercati sia in qualche modo osservante e non solo osservata? Che sia l’opera a scegliere te e non il contrario?
Ciò che si avverte e di cui si fa esperienza è la magia naturale delle cose, si tratta di una superstizione di cui non so dare ragione ma che temo sia prodotta dalla tenacia della catastrofe, dal fatto che se anche gli oggetti, come dice Borges, non sanno che il loro proprietario non c’è più, sono comunque oggetti innamorati, e che anche nella peggiore deiezione portano una traccia della bella disperazione di chi li ha custoditi. Una delle leggi della caccia di tesori è che si avverano tutti i sogni, ma non secondo il nostro desiderio: un oggetto che abbiamo scelto si porta dietro tutta la propria dinastia, apre regni inaspettati e conduce nei suoi territori, nelle sue affezioni, ci spinge, da qui la sua carica di seduzione, a mettere in salvo tutto.

 

Giuseppe Garrera a Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)
Giuseppe Garrera a Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)

Ci hai raccontato che in un giorno di Quaresima, entrando nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, trovando quadri e pale velate di nero come da tradizione, hai avuto una percezione molto forte del valore dell’immagine. Sottrazione e ferita, assenza e riconfigurazione sono gesti di fascino che hanno a che fare con la più antica storia dell’arte e della cultura, dal rito sacro all’iconoclastia. E ricompaiono oggi potentemente nell’arte contemporanea forse proprio in virtù della forza evocativa di questo gioco fatale. Penso alle opere di Nicola Samorì, ad esempio, con il quale hai collaborato come curatore…
“Ho spesso nostalgia dei quadri” è una bellissima espressione che utilizza van Gogh nelle sue lettere al fratello Theo, ad indicare una felicità in mezzo alle sofferenze dei giorni, alle sempre ingiuste pene economiche, alla persistenza di cattiverie e malignità, alla fatica di sognare. E, proprio pensando all’operare di Samorì, aggiungerei che quella chiesa listata a lutto, accecata momentaneamente delle sue immagini e che consegna il visitatore alla cecità e ad una oscurità radicale (è come se ci venissero cavati gli occhi), produce come non mai, acutissima, la “nostalgia della pittura” e la coscienza dell’incalcolabile capacità delle immagini di illuminare. Nella chiesa cattolica, le preghiere e le pitture hanno lo stesso potere: quello di sostenere il mondo.

È cristallina la tua passione per Pier Paolo Pasolini. Ne hai scritto, hai curato la sua grande mostra al Palazzo delle Esposizioni insieme a Clara Tosi Pamphili. Ci hai raccontato dell’emozione nel ritrovare le sue prime fotografie ad un mercatino. È una figura che ha fatto capolino spesso lungo la tua narrazione, nella quale ci invitavi a seguire un iter verso la periferia, perché lui la vedeva come vessillo di redenzione. Eppure oggi le periferie di Roma non sono più quelle pasoliniane. Si può dire esaurito il binomio centro/potere, periferia/libertà. È ciò che ci insegna De Cataldo, ciò che racconta la cronaca. Nell’ombra dei confini urbani potenti clan sembrano avere in pugno la gestione della città e al confronto, i solidi palazzi istituzionali del centro, paiono meringhe sul punto di sbriciolarsi. Perfino l’Arte ci dice che periferia non è più sinonimo di No man’s land se è vero che da un po’ di tempo a questa parte stanno nascendo ai confini dell’Urbe sempre più spazi espositivi, sempre più studi di artisti, sempre più gallerie, anche le più note.
Quello che dici è vero, eppure ancora oggi basta prendere un autobus e allontanarsi per ritrovare la vita. Solo da Porta Maggiore in poi inizia la vera vita. È pieno, strapieno, di povera gente e di gente santa nella propria credenza di vivere. Sono tutti appartenenti alla classe dominata, mentre i loro giudici e noi, e io e te, tutti appartenenti a quella dominante. Le periferie sono oggi piene di schiavi, le nostre città sono piene di schiavi. Noi viviamo utilizzando solo schiavi. In un articolo sul «Tempo» dei primi giorni di gennaio del 1970, per gli auguri di Natale e di fine anno, Pasolini ricorda solo i carcerati.

 

Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)
Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)

Ciascuno probabilmente vede Roma con gli occhi degli autori e degli artisti che ama. Io sono dalla parte di Sanguineti e di Malerba, per la visione della Piazza del Popolo divisa tra Canova e Rosati, per la via Veneto di Pannunzio, per la Roma dannunziana dei Papi, delle Ville, delle fontane, delle Chiese, dei palazzi principeschi. Sembra che la città soccomba al monomorfismo, mostrandosi alla stregua di un’idra dai mille volti. Quante Roma possono esistere secondo questo criterio? Roma si dilata e si arricchisce o si annebbia e si restringe se la si osserva attraverso lo sguardo di chi l’ha vissuta nel passato?
Tacito, parlando malissimo dei cristiani, dice che tutte le porcherie del mondo confluiscono a Roma e che Roma è un immondezzaio, canale di scolo di tutte le peggiori idee e divinità e ansie e isterie della terra. Giacomo Leopardi salverà un solo luogo per il suo cuore: la salita di Sant’ Onofrio; Pirandello dirà che è un‘acquasantiera trasformata in portacenere e Joyce che è come il cadavere di nostra nonna che mostriamo per fare soldi. Ma ciò che li unisce è il pensiero di un paese idolatra in cui si sono ammassati e in cui giacciono, per l’adorazione perpetua, tutte le febbri e i deliri dei tempi in forma di ruderi e apparizioni, statue, case, baracche, mausolei, piramidi, campanili e banchi della frutta, tende e cattedrali.

Tornando alle impressioni soggettive della città… I fotogrammi di Mamma Roma, l’idillio stridente dei Ragazzi di vita che fanno il bagno nell’Aniene o la irraggiungibile e magicamente deserta Fontana di Trevi felliniana, sono ricordi. Ti propongo due visioni cinematografiche più recenti della Città Eterna che mi hanno incantata: “La Grande Bellezza” di Sorrentino, che sfonda le porte dei palazzi per mostrarci i suoi segreti e “Nel Ventre dell’Architetto” di Peter Greenaway, dove Roma è vissuta in modo ancor più intimista. Quale dei due film su Roma risuonano di più in te e perché?
Stupidamente nessuno dei due, intendo come risonanza e dunque al di là del loro valore e grado di maestria: non amo le squisitezze e le raffinatezze da buongustai, i ristoranti di lusso in arte e in letteratura e nel cinema, ma soprattutto e come diceva Anna Maria Ortese, “Sono stanco di vedere ricchi”. La dimensione del dolore economico e l’umiliazione sociale sono per me gli unici segni di distinzione.

 

Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)
Palazzo delle Pietre, a Roma (Courtesy Palazzo delle Pietre e FraMmenti Club)

Alla fine dell’incontro, ci siamo dichiarati sostenitrice io di Manganelli e tu di Pasolini “che vince sempre”, hai detto. Eppure…Il tuo eloquio forbito e lievitante, flessuoso e fiorito di aneddoti onirici e di grazia, che si ritrova – seppur declinato in altra guisa – anche in tuo fratello Gianni Garrera, ha molto più del Verbapoiete che di PPP ai miei occhi. Di certo il Manga, ti avrebbe definito “archeofilologo”, “museofilo”, “profeticolare” e si potrebbe perfino azzardare che la figura manganelliana dell’Adediretto possa ben corrispondere a chiunque ami calarsi entro scantinati oscuri, camion pieni di merci, case in penombra degli svuotacantine per riemergere con il bottino di opere d’arte scovato. Secondo quel moto che il Manga stesso definirebbe di “levitazione discenditiva”. Cosa potrebbe dire invece Pasolini del tuo piglio di collezionista? Perché Pasolini vincerebbe sull’infero e supero Manganelli che tutti hanno pensato di trascurare nell’anno che è stato anche il suo centenario (2022)?
Pasolini è sempre nella vita, Manganelli è sempre nella morte. Pasolini ama gli uomini, e questo lo rende imbattibile. Riguardo a me, in realtà per me una conferenza, come quella di stasera, è sempre e soprattutto un omaggio alle grandi chiacchierate notturne della giovinezza con gli amici, in giro per la città e senza meta: certa perizia linguistica o volontà d’eloquio che così gentilmente mi attribuisci provengono dallo splendore di quelle notti e da tutto quel che di predicatorio e insonne avevano.

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