Il Museo Guggenheim Bilbao ospita un’antologica alla riscoperta dell’opera di Henri Michaux, pittore, poeta e sognatore.
In mostra oltre 200 fra opere, documenti, oggetti appartenuti Henri Michaux. In collaborazione con l’Archivio Michaux di Parigi, fino al 13 maggio 2018.
Bilbao. Nella controversa Europa fra le due guerre, l’ombra del totalitarismo e la minaccia alla libertà civile si affiancavano a un clima artistico paradossalmente vivace e caleidoscopico, impegnato nel cercare nuove forme di rappresentazione di una società drammaticamente cambiata dopo la shock della Prima Guerra Mondiale.
Nuove prospettive interessavano gli artisti, a cominciare dall’esplorazione dell’inconscio, sulla scorta degli studi di Freud, e che il clima di angoscia e incertezza dell’epoca spingeva ad approfondire. L’arte divenne così anche un mezzo di indagine conoscitiva di quello strano animale chiamato essere umano, capace di raggiungere le altezze dello spirito e le nefandezze della violenza più bieca.
La pittura visionaria di Henri Michaux (1899-1984) fu una risposta all’oppressione di quegli anni, e quel rifugiarsi in un mondo altro di creature fantastiche, deserti siderali, agglomerati di colore, fu la sua critica verso una realtà che sembrava contenere soltanto abomini, e un tentativo di trasferire quegli orrori in una dimensione più accettabile.
Scrittore, poeta, pittore, pensatore, Michaux appartiene a quella ristretta cerchia di intellettuali inappartenenti che in Francia conta figure quali Pierre Drieu La Rochelle, Lautréamont, Jacques Prévert, Raymond Queneau e Paul Léautaud – anche se con quest’ultimo non correva troppo buon sangue; definì infatti Michaux uno “che scrive versi senza capo né culo”.
Ma il brutto carattere di Léautaud era solo un lato della sua personalità: senza confessarlo pienamente a se stesso, in fondo apprezzava la libertà creativa ed espressiva di quel belga naturalizzato francese che poetava come disegnava e disegnava come poetava, ovvero in totale libertà. Affascinato dalle avanguardie che fra gli anni Dieci e Venti animavano il clima artistico europeo, non fu tuttavia seguace di nessuna di esse, e fra gli artisti che in un certo senso ebbero su di lui una qualche influenza, possiamo citare Paul Klee e Max Ernst.
Acquerelli, inchiostri, incisioni, gouache e matita furono le tecniche con cui liberare in immagini il suo universo interiore volto all’esplorazione dell’interiorità dell’individuo e del rapporto fra questo e il mondo soprannaturale. Un rapporto raccontato per metafore, con i colori tenui e crepuscolari dell’acquerello; volti appena abbozzati, figure di danzatrici arcaiche, forme scultoree di sapore cubista, vaghi richiami al mondo floreale: Michaux si muove sulla china de’impressione, dell’inespresso, della possibilità. La pressoché assenza di titoli, rafforza l’atmosfera di indeterminatezza che avvolge i suoi soggetti, quelli che sembrano paesaggi mentali.
Sin dall’adolescenza, fu caratterizzato da un temperamento angosciato che cercava di alleviare leggendo Dostoevskij e Tolstoj, i quali furono per lui i primi maestri nell’esplorazione dell’universo interiore dell’individuo, legato alla memoria e al misticismo, che a sua volta apre le porte al soprannaturale.
La scoperta dei Canti di Maldoror del Conte di Lautréamont, fu la molla che lo spinse a tradurre in parole le sue peregrinazioni mentali, e le raccolte Les Rêves et la Jambe e Qui je fus apparvero rispettivamente nel 1923 e nel 1927. Se Michaux poeta è relativamente noto, quasi sconosciuta è la sua attività pittorica, che la mostra Henry Michaux. L’altro lato curata da Manuel Cirauqui, opportunamente riscopre dopo anni di oblio.
L’universo creativo di Michaux è sospeso nell’ignoto, nelle profondità dello spazio siderale o della psiche umana, e attraverso uno stile non facilmente etichettabile (a metà fra Astrattismo, Espressionismo, Surrealismo) dà vita a esperienze oniriche, riflessioni sulla forma, esorcismi di paure infantili, figure danzanti appena picassiane nella forma.
Un delicato dinamismo caratterizza queste pitture, come fossero permeate da sinfonie di rara grazia, non create da compositori, ma dalla natura stessa: lo stormire del vento fra gli alberi, il brusio delle api in primavera, lo scorrere di un ruscello.
A questo filone dell’immaginario, si affiancano la fascinazione per l’alfabeto e la psichedelia. La prima è dovuta all’interesse di Michaux per la cultura calligrafica orientale, in particolare cinese, la cui complessità estetica e semantica costituiscono un vastissimo campo di ricerca. L’artista le reinterpretò in chiave antropologica, quasi identificando l’essere umano con la parola, e le lettere che la compongono. È infatti il linguaggio compiuto che differenzia (o dovrebbe differenziare) l’uomo dall’animale, e Michaux reinterpreta l’alfabeto scritto come un alfabeto del corpo, una danza cosmica che anticipa Keith Haring e un po’ anche Basquiat, per quella pennellata ampia dal sapore tribale, e la predilezione per volti che sembrano maschere africane.
La psichedelia fu un altro campo d’indagine: negli anni Cinquanta, sulla scia della Beat Generation americana, anche in Europa cominciò a diffondersi la fascinazione per le sostanze psicotrope e stupefacenti, visti come mezzi per allargare la percezione della mente umana e raggiungere così esperienze di consapevolezza che, utopicamente, avrebbero inciso nei comportamenti dell’individuo inclinandolo alla pace, al rispetto dei diritti umani, alla tolleranza. La tragedia della Seconda guerra mondiale era ancora una ferita aperta, e certi ambienti intellettuali cercarono di diffondere una nuova cultura della pace, intesa anche come fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della schiavitù del consumismo.
Le vie aperte dalla sperimentazione di sostanze stupefacenti incuriosirono anche gli artisti, che attraverso gli stati alterati sperimentarono nuove modalità creative. Lo stesso Michaux, nel 1955 assunse mescalina e sulla scorta di questa esperienza scriverà, l’anno successivo, il saggio Miserabile miracolo; realizzò inoltre numerose opere su carta traducendo in linee d’inchiostro quello che descrisse “uno stato vibratorio”, con conseguente alterazione della percezione degli oggetti.
Ma fondamentalmente le pitture “alterate” di Michaux non riproducono elementi della realtà, bensì sembrano riferirsi ai circuiti delle sinapsi cerebrali, a ipotesi di raffigurazioni del pensiero, così come si forma sotto l’effetto della mescalina. Linee d’inchiostro fittissime, a suggerire un brusio di sensazioni, allucinazione e manifestazioni fisiche quali dolori muscolari e sudorazione. Poco soddisfatto dell’esperienza, Michaux chiuse con quel genere di sostanze, preferendo affidarsi alle sue sole risorse creative.
Conservò tuttavia quello stile “vibratorio” che la mescalina gli aveva suggerito, e negli anni realizzò ulteriori opere di carattere psichedelico, aumentando però la carica figurativa; nacquero così opere affollate di volti e corpi umani, quasi una tela di Ensor, arborescenze dal sapore orientale, figure danzanti, che sembrano provenire da un non meglio specificato nirvana, apparentabili per atmosfera alle poesie di Allen Ginsberg. Nella tarda maturità, all’inchiostro di china sostituì la tempera acrilica e i colori a olio, avvicinandosi all’Espressionismo astratto.
La pittura di Michaux può essere considerata un’estensione delle sue poesie, una dichiarazione d’indipendenza con il loro librarsi nelle astrazioni del pensiero.
HENRI MICHAUX: THE OTHER SIDE
2 febbraio- 13 maggio 2018
Guggenheim Bilbao Museum
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