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Loredana Antonelli: videoart, musica e una personale in arrivo. Intervista

Making of del video musicale Pupik - Jewish Monkeys (Ph. ©Luca Anzani) Making of del video musicale Pupik - Jewish Monkeys (Ph. ©Luca Anzani)
Making of del video musicale Pupik - Jewish Monkeys  (Ph. ©Luca Anzani)
Making of del video musicale Pupik – Jewish Monkeys, regia Loredana Antonelli (Ph. ©Luca Anzani)

Intervista a Loredana Antonelli, artista multimediale e regista video.

Loredana Antonelli, artista multimediale e regista, ha un animo che vibra di colori e di musica. Opere che spaziano da visioni oniriche a composizioni più forti e martellanti, con particolare attenzione ai colori e alla loro potenza espressiva. Ai due poli  potrebbero esser poste – senza la pretesa di esaurire le possibilità creative dell’artista e dei suoi lavori – due opere molto diverse che testimoniano la poliedricità creativa di Loredana Antonelli: da una parte il video musicale Pupik, dall’altro il recente Miroir, video del brano tratto dal nuovo album Godere Operaio. L’album è opera del collettivo elettro-visual napoletano ELEM formato dalla stessa Loredana Antonelli, Fabrizio Elvetico e Marco Messina.

Abbiamo avuto l’opportunità e la fortuna di intervistarla.

Nelle sue creazioni immagini e suoni si combinano e dialogano. Per lei esiste una gerarchia di forme, ovvero una si deve adattare all’altra – le immagini al suono o viceversa – o crede siano due forme d’espressione autonome per cui ogni volta bisogna trovare una giusta combinazione?

Non esiste una gerarchia e non esiste neanche un’evidente necessità che leghi il suono alle immagini. Sono forme d’arte indipendenti, tuttavia fanno parte di un’entità unica che è il mondo percettivo-sensoriale. Io lavoro sia con immagini astratte, sia con immagini figurative, per progetti personali o commissionati, per live visual, installazioni video, video musicali etc. Quindi mi capita di lavorare, a seconda dei progetti, sia in relazione con il suono, sia in relazione con il silenzio. Ma posso dire che nei miei lavori, soprattutto quelli astratti, ho un’attitudine simile a quella di un musicista, uso i colori come potrei usare le note, le combino insieme partendo da un limite dato dalla scala cromatica per creare combinazioni pressoché infinite all’interno di un arco temporale.
L’argomento è davvero affascinate… in fisica la luce e il suono hanno molte similitudini, si misurano in frequenze e interagiscono con la materia.
Bisogna ricordare che fin dagli antichi greci, artisti, filosofi e scienziati hanno indagato la stretta relazione tra suono e colore. Aristotele teorizzò un sistema che metteva in relazione i 7 colori del prisma con le 7 note della scala musicale. I greci hanno coniato la parola sinestesia, che significa percepire insieme, proprio per spiegare il fenomeno attraverso cui una percezione sensoriale coinvolge altri sensi. Inoltre esiste la cinematica che studia la morfologia del suono, perché il suono, strano a dirsi, ha una forma fisica. Pitagora sosteneva che la geometria è musica solidificata.
A partire dal XVII fino ad arrivare agli inizi del XX secolo si sono avuti molteplici casi di sperimentazioni che hanno indagato il rapporto suono, colore, forma: sono state progettate macchine in grado di trasformare le note in colore, altre in grado di mostrare la morfologia delle note musicali. Tali esperimenti sono stati portati avanti dapprima da musicisti e scienziati e a seguire anche da pittori, che venivano attratti dall’intrinseca vividezza della temporalità, tipica della musica. Il primo pittore a studiare la relazione tra suono e colore è stato Giuseppe Arcimboldo intorno al XVI secolo.
Anche in Oriente ci sono teorie filosofico-religiose che confermano di una profonda relazione tra suono e immagine, la tradizione induista ad esempio vuole che Yantra e Mantra siano strettamente correlati, dove per Yantra s’intende la forma geometrica, che è alla base di tutte le cose e per Mantra s’intende il suono delle cose stesse.
A conferma che il nostro mondo percettivo-sensoriale non conosca gerarchie, ma connessioni, bisogna ricordare che il feto, durante i primi 3 mesi di vita, percepisce i sensi in una forma indistinta. A seguire dal quarto mese in poi, con la maturazione corticale, si delineano i centri sensoriali così come li conosciamo. Ciò significa che abbiamo per così dire un’originaria dimestichezza con la percezione sinestetica e che in sostanza il suono e la luce sono medium per esperire il mondo e sono, con tutta evidenza, fondamentali in egual misura.

Il nuovo video di ELEM, “Miroir”, conserva stralci di dialogo dei protagonisti del film “Tout va bien”, girato nel 1972 da Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin. Si tratta di un collegamento sporadico o il Cinema ha influenzato e influenza i suoi lavori?

Mi piacerebbe affermare che il cinema abbia avuto un ruolo da protagonista nel mio procedimento creativo, in realtà rientra tutto, cerco di resistere al linguaggio televisivo, ai video virali, alle serie, soprattutto quelle americane… si lo so dovrei vedere “Black Mirror”… Tuttavia se dovessi dire cosa mi ha influenzato non saprei dire, probabilmente tutto, non solo i film che amo, ma anche le cose che rifiuto, in qualche modo rientrano anche quelle: è questo il dramma… la spazzatura s’impossessa di noi, bisogna starci attenti… Non capisco quelli che ti vengono sotto e ti dicono: “ehi! hai visto sto video? guarda quanto fa schifo!” Scusa ma perché dovrei vederlo se fa schifo?… Insomma… non è folle?
Il nuovo video di ELEM, Miroir, è una riflessione sulla relazione tra pubblico e privato. Affronta quindi una questione che è un vero e proprio grumo solidificato, che parte dalle occupazioni di fabbrica degli anni ’70 e giunge a solleticarci i polpastrelli intenti a postare le nostre foto private su facebook. Il video è un distillato di pochi minuti che racchiude una sensazione scomoda agrodolce e al contempo adrenalinica e ipnotica, che era esattamente quello che volevamo ottenere…
Amo molto una frase di Louise Bourgeois in cui paragona l’opera d’arte a un campo di battaglia il giorno dopo lo scontro. In tal senso si può dire che l’opera d’arte è la testimonianza di una battaglia con la materia…

Loredana Antonelli

Ha degli artisti a cui si ispira o che sono un riferimento per le sue opere?

Moltissimi e i più disparati, sono caotici e curiosi come il mio percorso: ho una formazione da sinologa, ho studiato per alcuni anni teatro e arti della scena e condivido, probabilmente con larga parte dell’umanità, una grande attrazione per la musica. Io che “non so suonare neanche un citofono”, mi sorprendo sempre durante i live in presenza della nascita del suono, per me è sempre un’epifania, la stessa sensazione la provo a teatro o al cinema quando la scena\schermo si trasforma in un campo magico dove tutto è possibile e tutti i sensi sono coinvolti, sì tutti, anche l’olfatto…
Da poco ho scoperto l’esistenza di un pioniere dell’arte della luce, Thomas Wilfred, un danese trapiantato in America che è stato il primo a costruire una macchina della luce, la Clavilux. Dopo 10 anni di esperimenti, la Clavilux vide la luce nel 1922. In rete si trovano dei video in cui si può vedere la Clavilux in azione. In sostanza quello che faccio dal vivo è quello che faceva Thomas Wilfred nel suo laboratorio nei primi del Novecento e la cosa mi eccita tantissimo. Leggere le teorie di Kandinsky sull’astrattismo o scoprire la storia della prima sinfonia colorata, a cura del compositore russo, Aleksandr Skrjabin, mi fa sentire come una rabdomante che si sta muovendo nella giusta direzione. Sapere che ho avuto dei predecessori, che ci sono state persone che prima di me hanno sognato i miei stessi sogni mi dà un senso di fiducia, di avventura e di appartenenza. Posso dire di essere un’artista autodidatta che ha avuto grandi maestri.

Come artista ha partecipato a molte esposizioni sia in Italia che all’estero. Spesso la videoarte incontra ancora delle resistenze da parte del grande pubblico. Ha notato una differenza nell’approccio del pubblico e degli addetti ai lavori alle sue opere tra l’Italia e l’estero?

La videoarte è per me un linguaggio congeniale perché è una forma duttile, inoltre permette di aggirare alcuni ostacoli produttivi e di veicolazione che sono più difficili d’aggirare per esempio nel cinema.
Lo scetticismo o la resistenza di cui parla può essere letta anche come un segno positivo, vuol dire che il pubblico non è indifferente. Il pubblico chiede una relazione, non parlo di comunicazione, ma di un legame più sottile, il pubblico chiede di sentirsi in qualche modo compromesso dall’esperienza dell’arte. È una magia che non sempre accade e questo perché, a discapito di quello che la subcultura asservita al mercato in cui siamo immersi vuole farci credere, non tutto è arte.
Personalmente vivo di grandi entusiasmi e grandi resistenze, entusiasmi per l’arte che vedo in torno a me, un’arte della miglior specie fatta con onestà e in reale dialogo con le proprie necessità e il proprio tempo. Nutro invece una profonda resistenza nei confronti di un certo tipo di arte fatta per e a esclusivo consumo del mercato, un’arte conformista, senza vita, che reitera una forma ormai diventata sostanza ideologica, irreggimentata e asfittica come è certa arte concettuale. Sono convinta che Duchamp oggi sarebbe uno street artist o un abile disegnatore di paesaggi a china o un musicista che fa implodere la trap music dando vita a un nuovo genere musicale o chissà cos’altro, forse un abile artigiano, ma di certo non me lo immagino fare le stesse cose che faceva agli inizi del XX secolo.
L’Italia ha subito uno smantellamento sistematico che ha privato il grande pubblico degli enzimi utili a metabolizzare certi alimenti. Il grande pubblico non è riuscito a difendersi, forse non aveva strumenti per farlo o forse non si è ancora reso conto di essere stato privato di uno dei piaceri più grandi della vita oltre al cibo e al sesso, che è la conoscenza. Non mi riferisco alla cultura ma alla conoscenza, le due parole non sono sinonimi.
In Cina dove ho vissuto per qualche tempo, il controllo capillare di ogni aspetto della vita pubblica e di conseguenza privata, rende molto difficile una qualsiasi forma di libera azione. L’arte in particolare è ben vista solo se non si fa portavoce di dissenso e denuncia sociale e ovviamente se porta immediato guadagno. Certo ci sono eccezioni e il continente è talmente vasto che non è possibile generalizzare, inoltre avere un quadro reale e aggiornato è pressoché impossibile, è una società in continua metamorfosi, culturale, urbanistica e sociale dovuta principalmente alla “rivoluzione” economica degli ultimi decenni.

Making of del video musicale Pupik - Jewish Monkeys  (Ph. ©Luca Anzani) 2
Making of del video musicale Pupik – Jewish Monkeys, regia Loredana Antonelli (Ph. ©Luca Anzani) 2

Come regista ha collaborato con molti musicisti per la realizzazione di video musicali. Come nascono questo tipo di collaborazioni?

Di solito mi contattano dopo aver visto i miei lavori o nascono da incontri casuali. È essenziale che s’instauri un rapporto di fiducia e che ci siano punti di contatto artistici e umani altrimenti è impossibile lavorare assieme. Girare un video musicale è sempre un’occasione per produrre qualcosa che sposti un po’ la questione, ma usando una forma pop, “facile”, breve. Non si può immaginare il lavoro che c’è dietro a un video che magari durerà “solo” 4 minuti. Ogni volta è un’avventura, è come entrare nel mondo di un altro (quello del singolo musicista o del gruppo musicale), farlo proprio, “vedere la musica” e poi fare in modo che a quel punto sia l’altro a entrare nel mio mondo… e questa è sempre la parte più delicata. A volte la lavorazione dura anche diversi mesi, nel caso di due video che ho girato l’anno scorso per Pier Alberto Valli, prezioso cantautore romagnolo e dei Jewish Monkeys, una folle klezmer band di Tel Aviv, siamo stati in ammollo in una piscina olimpionica per 4 giorni, ho dovuto vincere la paura d’immergermi con la bombola e fare un corso di subacquea per girare le riprese sott’acqua, abbiamo ricostruito una stanza in pvc e ferro in scala reale che poi abbiamo calato in piscina, abbiamo fatto prove con costumi e trucchi per vedere come reagivano all’acqua. Inoltre abbiamo fatto uno studio sui movimenti e la performer dei due video ha dovuto fare un corso accelerato di apnea. Abbiamo coinvolto non meno di 30 persone tra training, ricerche e allestimento e impegnato il laboratorio di scenografia dell’exasilofilangieri di Napoli per circa un mese e mezzo… senza contare editing, vfx e color. Insomma un lavoraccio, un bellissimo lavoraccio di squadra.

In quale direzione si sta muovendo la sua ricerca artistica?

Sto lavorando a una mostra personale in cui confluirà il mio lavoro degli ultimi 9 anni. La mostra sarà per me il momento di mettere un punto sul lavoro di ricerca digitale-pittorica che ho sviluppato tramite la realizzazione di video generativi e programmi di elaborazione dati in tempo reale, sotto forma di stampe e installazioni video. Questo lavoro per me è una ricerca sulle proprietà terapeutiche del colore e l’espressione formale astratta. È un linguaggio atto a creare un luogo in cui ci sia spazio, aria, pensiero, vuoto. È un processo immersivo che vuole indurre all’estasi e all’uscita da sé stessi. Visto l’orrore che ci circonda, è una necessità politica.

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