La recente modifica al Codice dei Beni Culturali che ha riformato il regime di esportazione delle opere d’arte rappresenta un primo passo verso un diverso approccio da parte del legislatore alla materia. L’Italia vuole forse diventare una Market Nation? E la risposta a questo quesito ha un peso particolare se pensiamo all’immenso patrimonio culturale artistico italiano.
Capita, infatti, sovente di leggere di tale primato, tutto italiano, che non trova eguali in tutto il mondo. E forse, in tali affermazioni, un fondo di verità c’è; ma l’analisi che segue avrà un diverso punto di partenza, ossia la riflessione sugli “assenti” nel nostro territorio, su quelle opere che per sempre hanno lasciato il nostro Paese e che hanno trovato la loro dimora altrove.
Sono, infatti, tali “assenti” che fanno maggiormente riflettere e che aprono un interrogativo sulla convenienza e sulla giustizia degli innumerevoli spogli, in alcune occasione legittime acquisizioni, che hanno colpito in maniera indelebile il nostro patrimonio e, di conseguenza, sul ruolo che oggi legislatore e legislazione assumono nella materia.
Sul tema moltissimi sono gli autori che hanno scritto ma particolare attenzione merita il francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy che, nelle sue sette “Lettere a Miranda”, seppur fittizie e in un certo senso nate “morte”, esprimecon grandissimo valore simbolico una fondamentale teoria nella storia della tutela del patrimonio artistico, la teoria del “contesto”.
Tale teoria è fondata sull’insostituibilità, ai fini di una corretta lettura dell’opera d’arte, del contesto storico e culturale nel quale l’opera stessa nasce e che l’autore, facendo riferimento alla Città Eterna, definisce come complesso “di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, d’iscrizioni, di frammenti d’ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, d’utensili, etc. etc.”.
E, partendo da tale teoria, in aperto contrasto con quello che stava accadendo nell’Europa di fine ‘800 dove Napoleone e i suoi generali selezionavano e trasportavano a Parigi le migliori e più rappresentative opere d’arte dei vari Stati Europei, l’autore affermava che l’asportazione dei capolavori è cosa da evitare poiché, mentre l’opera in sé è sicuramente oggetto trasportabile, il contesto no. Lo stesso affermava, infatti, che tali capolavori devono assolutamente “stare accanto” a tutte le altre operenel “contesto” per il quale sono state commissionate; “un’opera d’arte appartiene al luogo che l’ha vista nascere, e non può dunque essere sradicata, strappata al suo Paese d’origine, dalla storia specifica di cui è prodotto senza che ne venga compromesso il suo stesso significato”.
E tale teoria del “contrasto” è più attuale di quanto si possa pensare; essa, in fondo, è tutt’ora alla base della moderna tutela del nostro – immenso- patrimonio culturale; è indubbio, infatti, cheall’interno del nostro ordinamento gestione e tutela del patrimonio sono da semprefondati su due corollari di tale teoria, la inalienabilità e la concezione pubblicistica dello stesso.
Come afferma infatti Salvatore Settis, archeologo e studioso, “nella tradizione italiana, la gestione e la tutela del patrimonio culturale non sono mai state intese in senso patrimoniale-proprietario; si è sempre pensato che il valore venale dei monumenti e degli oggetti d’arte fosse subordinato alla funzione civile del patrimonio artistico”.
E questo “fil rouge della tutela”, come definito da Andrea Emiliani, si dipana fino a noi dagli Stati preunitari. Già nello Statuto di Siena, nel 1309, era previsto come dovere primario di chi governava “la bellezza, perché la bellezza nella città dà orgoglio ai senesi e allegrezza ai forestieri”. Nella Firenze del 1603 era affidato ai componenti dell’Accademia del disegno il compito di decidere quali opere private non avrebbero potuto lasciare la città. E a Roma troviamo, a partire dal 1624, una lunga serie di prohibitionis che vietarono l’esportazione di antichità, pitture, sculture, libri e altri oggetti d’arte.
Inalienabilità dei beni del demanio e del patrimonio pubblico, l’esistenza di vincoli sulle opere d’arte private, attuato con la notifica, la prelazione dello Stato nella vendita delle stesse costituiscono, quindi, quell’insieme di istituti a tutela del patrimonio che è arrivato a noi non troppo mutato e che costituisce, oggi come al momento della creazione, il nucleo centrale della normativa sull’esportazione nel Codice dei Beni Culturali.
Nonostante, infatti, le recenti modifiche al Codice con l’introduzione di una rinnovata “soglia temporale” – è stato portato da 50 a 70 anni il “limite di età” delle opere al di sotto del quale le stesse possono circolare senza necessità di ottenere una licenza ma sulla base di una semplice autodichiarazione -e l’introduzione della soglia economica – oggi pari a € 13.500, al di sotto della quale le opere possono essere esportate sulla base di una autocertificazione – , il testo del Codice appare ancora oggi fedele alla teoria del “contesto” e alla concezione delle opere d’arte come bene pubblico e non privato, al servizio della comunità e, quindi, da mantenere all’interno del territorio nazionale.
Non tutti però sono concordi a tale teoria: vi è, infatti, una corrente più “liberista” composta da collezionisti, commercianti e operatori professionali che prospettavano una modifica al Codice maggiormente liberale econ una soglia temporale ed economica più favorevoli all’esportazione delle opere. E accanto a tali figure, ovviamente mosse da interessi puramente commerciali, vi sono anche studiosi ed esperticome Antonio Paolucci, a lungo direttore dei Musei Vaticani, il quale afferma che “se un kouros attico fa pubblicità alla civiltà greca e alle sue origini, la Gioconda lo fa all’Italia. Pur se non è mai stata portata via dal nostro Paese” e, nello stesso senso, Fabrizio Lemme l’avvocato dell’arte affermando che “quanto è stato venduto nei secoli, è il migliore ambasciatore dell’Italia nel mondo. Chi lo ammira, poi viene da noi, a visitare il Paese, ha diffuso in ogni dove la nostra cultura”.
Tale contrapposizione si riflette poi anche nel diritto internazionale che da una parte qualifica i patrimoni nazionali come “elementi di una cultura comune” – convenzione 1954 dell’Aia – e dall’altra li tutela come beni dei singoli Paesi – UNESCO 1970; riflettendo quella contrapposizione tra le Market Nations, dellequali sicuramente il mondo anglosassone è il maggior rappresentante, favorevoli ad una “enfasi cosmopolita”, e le Source Nations, legatealla concezione nazionalistica, protettiva e ritentiva del patrimonio culturale nazionale.
In conclusione, è evidente che sia in ambito internazionale che nazionale sussiste un contrasto tra due visioni dei patrimoni culturali nazionali: una prima, legata alla inalienabilità e indissolubilità dello stesso, espressa dallo scrittore A.C. Quatremère de Quincy nella teoria del “contesto”, e una seconda, più “liberista” che vede le opere d’arte come patrimonio culturale diffuso, non nazionale, e ben accolta da professionisti e operatori del mercato in un’ottica puramente commerciale.
L’interrogativo aperto al quale risponderà il legislatore è se proseguire sulle orme dei nostri illustri predecessori, ossia se continuare ad essere una Source Nation, secondo la definizione di John Henry Merryman, oppure se, seguendo l’esperienza del mondo anglosassone, abbandonare questo sentiero e divenire via via una Nazione che esporta e commercia arte, una Market Nation appunto.