La Forma dell’Acqua, quando Amélie incontra il Mostro della laguna.
La Forma dell’Acqua (The Shape of Water), arrivato in Italia da qualche settimana, ha portato in sala, oltre al nutrito seguito di Guillermo Del Toro, il pubblico delle grandi occasioni, forte del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e soprattutto delle tredici nomination ai prossimi premi Oscar.
Siamo negli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda a Baltimora (città che da John Waters in poi ha assunto precisi connotati cinematografici nella narrazione della provincia americana). Un enorme laboratorio sotterraneo ospita le sperimentazioni finalizzate allo sbarco sulla luna, in aperta e frenetica competizione con la Russia.
Arriva qua una misteriosa creatura (interpretata da Doug Jones che vedremo prossimamente nei panni del conte Orlok nel Nosferatu di Robert Eggers), un anfibio antropomorfo catturato in America latina dal mefitico Richard Strickland (Michael Shannon), braccio violento al soldo dei militari americani. Mentre le torture di Strickland mettono a rischio la salute della creatura, l’inserviente muta Elisa (Sally Hawkins, serafica e memorabile) vi si avvicina tramite la musica (una deliziosa serie di standard jazz come I know why and so do you di Glenn Miller) e invitanti uova sode che sembrano incontrare i suoi gusti.
Tra i due si svilupperà un’attrazione romantica subito minacciata sia da Strickland, intenzionato a uccidere la creatura per vivisezionarla, sia dai russi che hanno infiltrato una spia nel personale scientifico per carpire tutti i segreti della controparte bellica. Sarà compito di Elisa provare a salvare la sua creatura con l’aiuto dell’amico Giles, illustratore omosessuale dal tocco à la Norman Rockwell (interpretato da Richard Jenkins) e della collega inserviente di colore Zelda (Octavia Spencer).
Nonostante la trama richiami decine di opere sia cinematografiche sia letterarie che hanno narrato l’amore fra una creatura mostruosa e una donna (La Bella e la Bestia con tutte le derivazioni del caso), la principale ispirazione e trigger creativo di Del Toro – che lo vide da piccolo innamorandosene perdutamente – è Il Mostro della Laguna Nera di Jack Arnold, girato nel 1954, due i sequel.
Oggi il film di Arnold è assurto a cult cinematografico, più volte citato in TV e al cinema (ricordiamo per esempio il film girato da Dawson nella prima stagione di Dawson’s Creek). Il Mostro della Laguna Nera nacque da una suggestione del produttore William Alland che durante una proiezione di Quarto Potere conobbe il direttore della fotografia di origini messicane Gabriel Figueroa, questi raccontò ad Alland di una strana leggenda su degli esseri mitologici umanoidi col corpo di pesce, venerati come divinità in Amazzonia, da qui la caccia al mostro nella paradisiaca laguna al centro del film. Del Toro riprende direttamente quella suggestione, facendo arrivare la creatura a Baltimora proprio da una caccia all’ultimo sangue in America Latina.L’alloggio di Elisa è un appartamento situato sopra a un cinema -fin da subito ha tutta l’aria di una grotta sottomarina- e anche la creatura rimarrà vittima di quella fascinazione che solo il grande schermo sa dare ma Elisa non è la Shosanna di Bastardi Senza Gloria e nonostante i protagonisti siano tutti e per motivi diversi vittima di discriminazione, il film evita il conflitto, mantenendo tutto al proprio posto, come se anche la natura dei personaggi non fosse altro che un pezzo del meraviglioso spazio scenico creato.
Dispiace sia così, soprattutto se pensiamo che l’immaginario di Del Toro ha sempre avuto una matrice rivoluzionaria, in grado di colpire sia visivamente sia tramite la narrazione.
Michael Stuhlbarg, che è il nuovo Janelle Monáe – presente alla notte degli Oscar con ben tre film supercandidati: The Post di Steven Spielberg, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino e la Forma dell’Acqua – prova a regalarci un personaggio più conflittuale e umano ma viene usato in maniera troppo didascalica. Stessa sorte tocca a Octavia Spencer, costretta a riprendere le note un po’ troppo sfruttate di The Help e Il Diritto di Contare.
Ci rimane Sally Hawkins, a lavoro di buona lena su una performance aerea, forte, divertente e dolorosa allo stesso momento, una splendida interpretazione ispirata da Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio, Buster Keaton e Audrey Hepburn.Vale la pena ricordare infine che la scena di danza in bianco e nero fra Elisa e la creatura non è una strizzatina d’occhio gigiona a La La Land bensì, come suggerisce la scenografia, un omaggio commovente alla scena Let’s Face The Music and Dance di Seguendo la Flotta (1936).
Innumerevoli difatti sono le citazioni e gli omaggi al cinema della Golden age di Hollywood, da già citato Mostro della Laguna ai musical con Carmen Miranda e Alice Faye. You’ll Never Know, la canzone principale del film, è difatti tratta da Hello, Frisco, Hellos e riadattata per l’occasione da Alexandre Desplat (che con la colonna sonora ci riporta alle atmosfere trasognate del Favoloso Mondo di Amélie); a cantarla era Alice Faye e agli Oscar del 1943 si è aggiudicata la statuetta per miglior canzone originale.