L’erede di Michelangelo raccontato da 50 sculture e 23 disegni, oltre a due dipinti di Monet e Munch legati alla sua opera. A chiusura del centenario della scomparsa dell’artista, una mostra organizzata da Linea d’Ombra in collaborazione con il Musée Rodin di Parigi. Al Museo di Santa Caterina, fino al 3 giugno 2018.
Treviso. Paul Léautaud raccontava – con un certo compiacimento figlio di un carattere impossibile che lo avevo portato a denigrare Henri Michaux -, come un giorno, visitando l’atelier di Rodin si fosse messo a vomitare per la nausea che gli causava il vedere ”tutti quei culoni”, come lui stesso li apostrofò. Non fu l’unico a rimanere scandalizzato da quel plasticismo muscolare fortemente espressivo da cui sembrava uscire l’anima non soltanto del soggetto rappresentato, ma forse anche dello stesso artista, ed entrambe si riversavano sull’osservatore, lo strappavano dalla sua quieta esistenza per gettarlo con impeto nella pensosità frenetica di una modernità che in quella seconda metà dell’Ottocento sconvolse alla radice la millenaria società rurale europea, con la nascita della vita urbana, dei ceti operai, delle rivendicazioni di classe.
L’arte, oltre che precorrere i tempi, ha da sempre avuto anche la missione di raccontare la società e i suoi cambiamenti, e a farlo, in quella Francia appena uscita dall’ultimo impero di Napoleone III, erano soltanto i pittori impressionisti, e pochi altri “coraggiosi” come Gustave Courbet, o scrittori come Zola e Balzac. L’accademismo storico era ormai desueto, le circostanza imponevano un’arte legata al realismo quotidiano, nonché alla psicologia dell’essere umano. A questa sintesi giunse anche lo scultore François-Auguste-René Rodin (1840-1917), e anch’egli attraverso un percorso creativo completamente indipendente, dopo essersi “ribellato” agli stilemi dell’accademica Petite École dove aveva compiuti gli studi. A differenza degli Impressionisti, con i quali condivideva la necessità di innovare l’arte rendendola aderente alla realtà, non fece mai parte di un gruppo o di un movimento, ma scelse di “combattere” da solo, come sottolineò lo scrittore e poeta Rainer Maria Rilke, che di Rodin fu ammiratore e persino segretario per diversi anni.
A ricordare e celebrare un artista fondamentale per lo sviluppo di buona parte dell’arte del Novecento, la mostra Rodin. Un grande scultore al tempo di Monet, curata da Marco Goldin e ospitata nel Museo di Santa Caterina che per l’occasione ha aperta la sale dell’ipogeo. Mirabile la completezza delle scelte curatoriali, che permettono di riscoprire e apprezzare tutti i momenti fondamentali della carriera dello scultore; un po’ penalizzante, forse, l’impianto d’illuminazione, un po’ troppo soffuso e non in grado di far cogliere immediatamente i particolari delle opere, in particolare dei bronzi.
Tecnicismi a parte, la mostra racconta il genio di uno scultore che oscilla fra classicismo e modernità, fra Donatello e Michelangelo. Pur formatosi con l’ammirazione per i modelli del Rinascimento italiano – “incontrati” di persona nel viaggio compiuto nel 1876 -, la scultura di Rodin non è fatta di bellezza in senso proprio, ma esprime un’idea di bellezza che a sua volta emerge dall’anima del soggetto, intesa come interiorità spirituale e psicologica. Per questo, ammirando Michelangelo, preferiva le opere della seconda fase della sua carriera, quella del “non finito”, perché il corpo fisico non coprisse l’anima; la sua scultura è una porta aperta sull’interiorità, nel Pensatore come nel Figliol prodigo, nell’Uomo dal naso rotto come nell’Età del bronzo, che scandalizzò il Salon del 1877 al quale era stata ammessa, dopo che dieci anni prima un’altra opera di Rodin era stata rifiutata, esattamente come era accaduto ai pittori impressionisti.
Sin dall’inizio, volle essere un outsider, e rifiutò in blocco quanto appreso in accademia per lasciarsi ispirare dalla muscolarità di Michelangelo, dalla quale nacquero quelle forme umane voluminose che tanto scandalizzarono Léautaud. Ma furono proprio queste forme a loro modo prosperose a ispirare Gauguin prima e Picasso poi, a dimostrazione di come, per questo e altri aspetti, la scultura di Rodin sia stata innovativa, un po’ come circa mezzo secolo prima lo era stato Lorenzo Bartolini con il suo “bello naturale”, primo efficace tentativo di superamento dell’accademismo.
Quella di Rodin è quindi una scultura certamente non facile da apprezzare, scomoda e dolorosa tanto è profonda la sua espressività: il Pensatore – di cui in mostra è visibile la versione in gesso del 1903 -, evoca Kierkegaard e il suo singolo, evoca Nietzsche che guarda nell’abisso dell’infinito, evoca l’angoscia dell’uomo moderno travolto dai forsennati cambiamenti di un’Europa in crisi d’identità, sull’orlo della Grande Guerra. Accostate ad esso, il delicato Pensiero, un gesso del 1893 che se da un lato rievoca le michelangiolesche Prigioni, dall’altro è calato nella sua epoca per il morbido copricapo nuziale bretone posato sulla testa femminile; ma l’aspetto poetico non inganni. Lo sguardo inclinato verso il basso, le labbra serrate, rimandano all’angosciata malinconia del Pensatore, entrambi simboli senza tempo della condizione umana.
Ma Rodin non è solo simbolo; è anche verità e carattere, studio del corpo pulsante di vita, come negli struggenti bronzi di Adamo (1880) ed Eva (1881), il primo che richiama il David di Michelangelo per la muscolarità plastica, la seconda vicina al Masaccio della Cacciata dal Paradiso, per il pudore con cui nasconde il volto fra le braccia; mentre la drammaticità di Colei che fu la bella Elmiera (1880), per la sua espressività drammatica è vicina alla Maddalena penitente di Donatello; tre esempi che confermano la predilezione di Rodin per il Rinascimento italiano, e l’immensa portata che quest’epoca ebbe sugli sviluppi artistici delle epoche successive.
In Rodin la matericità “grezza” di gessi come la Bella Elmiera si alterna a raffinatissime rifiniture come in quella Età del Bronzo così perfetta da avergli procurata un’infondata accusa di“sovramodellato”, cioè di aver fatto un calco del modello, tanto quella perfezione era ritenuta irraggiungibile dalla mano dell’uomo. E a proposito di mani, impossibile non notare come quelle delle statue di Rodin sono sempre belle, come quelle del Verrocchio; le mani sono l’estensione della mente e dell’anima, con quelle si può creare la bellezza, ma anche compiere atti delittuosi. Possono compiere l’alfa e l’omega dell’esistenza umana, così come la mente lo può concepire. La mano come organo creatore di oggetti e traduttore in forme corporee del pensiero umano. Quasi un richiamo, forse inconscio, allo stoico Zenone di Cizio, che sosteneva la corporeità di tutte le idee, in antitesi a Platone; e corporea, la scultura “esistenzialista” di Rodin lo è, sia per ragioni di struttura sia per ragioni concettuali.
Il ragionamento filosofico in Rodin è sempre legato alla realtà, fondamento necessario per dialogare con il pubblico, secondo quella sensibilità di apertura verso la massa di cui era stato iniziatore Gustave Courbet; ne sono altri due suggestivi esempi le sculture del San Giovanni Battista (1880) e dell’Uomo che cammina (1907), dove l’adesione al corpo è così netta da annullare il senso narrativo, e raggiungere quella forma pura ed eterna che aprirà la strada a Duchamp e Giacometti.
Nel 1889, il coup de théâtre della doppia personale assieme a Claude Monet, presso la galleria di Georges Petit a Parigi, in concomitanza con l’Esposizione Universale, lo stesso anno che vide la costruzione della Tour Eiffel. Per entrambi gli anni Ottanta sono stati un decennio importante: Monet lascia la pittura en plein air per dedicarsi al lavoro d’atelier, Rodin consolida invece la maturità raggiunta con l’Età del Bronzo, del 1877. La mostra ebbe grande successo, che diede avvio per entrambi a ulteriori sviluppi creativi. Negli anni Novanta, Rodin approfondì il suo lavoro di estrinsecazione dell’anima, e uno dei suoi lavori migliori in tal senso è quel Victor Hugo ritratto in uno studio di nudo, che sospende in una atemporalità classica il grande scrittore, e lo accosta alla severità filosofica dei Cinici e degli Stoici, e spiega, in un certo senso, la natura delle sue opere narrative, quei romanzi storici fortemente impregnati di disillusa sensibilità sociale.
Dopo anni di lotta in solitaria, Rodin raggiunse il meritato successo, e la mostra lo racconta con discrezione proponendo un dipinto di Munch, che ritrae una versione monumentale del capolavoro dello scultore, ovvero il Pensatore, nel giardino di un facoltoso medico tedesco, appassionato collezionista delle opere del francese.
Ma ovviamente non è questo a dare oggi la grandezza di Rodin; la sua grandezza la si percepisce dal modo in cui le sue sculture ci colpiscono, arrivano al cuore e alla mente, dall’influenza che ha avuto su molti artisti dei decenni successivi, e dalla determinazione con cui ha portato avanti le sue convinzioni artistiche sapendo di avere ragione.
RODIN
Un grande scultore al tempo di Monet
24 febbraio – 3 giugno 2018
Treviso, Museo Santa Caterina
Piazzetta Botter Mario, 1,
31100 Treviso TV
www.lineadombra.it