Non è bastata una petizione, e non sono bastate più di tredicimila firme e altre ancora che continuano ad arrivare, per salvare il convento di San Marco, cioé lo splendido convento -uno dei più famosi al mondo- del Beato Angelico, del Savonarola, di Giorgio La Pira, un luogo di storia e di fede tracciate sulle sue mura. La decisione di chiuderlo era stata presa già nel 2013 dal Capitolo Provinciale dell’Ordine dei Domenicani, ma era stata bloccata in seguito alle proteste. Pochi mesi fa però i quattro frati che erano rimasti a presidiare le celle che si trovano a ponente, attorno al chiostro grande, sono stati trasferiti a Santa Maria Novella dopo che una risoluzione del luglio 2017 aveva riconfermato inesorabilmente la chiusura di San Marco.
Il priore Aldo Tarquini ha spiegato che l’attuale situazione «di adempiere gli aspetti fondamentali della nostra vita e comporta pesi economici non più sostenibili. Per questo è stato deciso che ci sia un’unica comunità di domenicani con sede a Santa Maria Novella». Ma davvero si può spegnere così un luogo tanto importante della nostra Storia?
Queste mura nel cuore di Firenze, affacciate sulla via Cavour verso il Duomo, resistono da più di 700 anni, quando nel 1299 fu eretto il complesso originario per i silvestrini. Oltre alle funzioni di monastero svolgeva anche quelle di chiesa parrocchiale. Nel 1418, però, i monaci, accusati di decadenza e di non rispettare più le regole monastiche, vennero invitati ad andarsene. In verità, vennero proprio cacciati, solo che loro non ci pensavano affatto a levare le tende.
Ci volle l’intervento di Papa Eugenio IV e del concilio di Basilea oltre a quello abbastanza determinato di Cosimo de Medici, perché la struttura venisse finalmente lasciata ai religiosi osservanti di San Domenico di Fiesole, nel 1437. Fra di loro, c’era un giovane pittore, Guido di Pietro, stimato anche per la sua semplicità e generosità, come riportano le cronache dell’epoca, che aveva preso i voti a soli 25 anni, nel 1420, diventando fra Giovanni da Fiesole. E’ passato alla storia come il Beato Angelico, che Giorgio Vasari definì «eccellente pittore» e «ottimo religioso». Nel convento visse otto anni, fino al 1445, quando fu chiamato a Roma dal Pontefice. Ma sono gli anni in cui il convento viene trasformato anche per volontà di Cosimo de Medici che commissiona all’architetto di casa, Michelozzo, la ricostruzione della struttura.
Oltre al rifacimento del corpo centrale affacciato sul grande chiostro, gli splendidi affreschi eseguiti fra le celle e gli spazi comuni dall’Angelico e dai suoi seguaci, Benozzo Gozzoli in testa, da Fra Bartolomeo, Domenico Ghirlandaio, Alessio Baldovinetti, Jacopo Vignali, Bernardino Poccetti, Giovanni Antonio Sogliani, ridanno vita nuova a tutto l’ambiente, rendendolo un monastero museo. Il Beato Angelico, sceso dal Mugello a Firenze, aveva iniziato a dipingere giovanissimo, come testimoniano alcuni atti dell’epoca, prima ancora di prendere i voti. Secondo i critici «la sua pittura fondeva la spiritualità all’eleganza che gli derivava dall’arte tardo gotica» e dagli influssi rinascimentali. Qui dentro c’è la miglior collezione al mondo delle sue opere.
I lavori di Michelozzo terminarono nel 1455, anche se lui li seguì di persona solo fino al 1444. Cosimo de Medici sborsò più di quarantamila fiorini per la ricostruzione. Diciamo che ne valse la pena. Punto d’eccellenza era la biblioteca al primo piano, con un arioso spazio e due colonnati disposti a formare tre navate coperte con volte a botte. Qui venivano a studiare non soltanto i monaci, chinati sui libri e sulle scrivanie sotto le grandi finestre che illuminano l’ambiente con luce naturale, ma anche altri dotti di corte come Angiolo Poliziano e Pico della Mirandola.
Nel 1489 arrivò chiamato dai Medici per le sue mirabili capacità oratotorie un domenicano romagnolo di Ferrara molto apprezzato dai contemporanei, fra Girolamo Savonarola. Nel convento di San Marco ebbe il compito di esporre le Scritture e di predicare dai pulpiti. C’era già stato qualche anno prima e nel 1484 gli era stato assegnato il pulpito di San Lorenzo, la parrocchia dei Medici, ma quella volta non aveva avuto un gran successo perché la sua marcata pronuncia romagnola era suonata barbara alle oprecchie dei fiorentini. Ma il 29 aprile 1489 Lorenzo de Medici scrisse al Generale dei Frati Predicatori di mandargli «qui frate Hieronymo da Ferrara».
Il Magnifico non ci mise molto ad accorgersi che quello splendido oratore diceva cose troppo pericolose e lo fece ammonire più volte a non tenere le sue solite prediche. Quando Girolamo diventò priore di San Marco lo riempì invano di doni e cospicue elemosine. Però, fra i due c’era un rapporto di stima, e alla sua morte, nel 1492, Lorenzo raccolse a Villa Careggi il conforto della benedizione del Savonarola, come testimoniò il Poliziano. Senza più il suo protettore, il frate domenicano si avvia verso la sua fine, e dopo le invettive contro i costumi lascivi dei fiorentini e soprattutto della Curia di Papa Borgia Alessandro VI, viene bruciato sul rogo di piazza Signoria, nel 1498. Il convento dei domenicani continua a vivere di grande luce propria.
Solo nel secolo diciannovesimo viene espropriato ai frati lasciando a loro solo la Chiesa, gli ambienti affacciati sul chiostro e la biblioteca Arrigo Levasti, una delle più importanti al mondo, fondata nel 1979, con il lascito del grande studioso cattolico. Nel 1869 il convento era stato nominato Monumento di importanza nazionale. Dal 1934, Giorgio La Pira, il «sindaco santo», visse qui dentro, abitando la cella numero 6. E nella notte fra il 4 e il 5 novembre del 1966 si trovò di fronte nei corridoi illuminati dagli affreschi Enrico Mattei, il direttore della Nazione che era scappato qui dentro a cercar rifugio dall’alluvione. L’Arno stava coprendo d’acqua e di fango tutta la città. Ma questo convento per miracolo lo stava quasi lasciando intatto. Adesso, per non chiuderlo, ce ne vorrebbe un altro di miracolo.
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