Il Centre de la Vieille Charité ospita fino al 24 giugno 2018, una grande mostra dedicata al rapporto di Picasso con il viaggio, in circa cento opere fra pitture, disegni e sculture, oltre alle centinaia di cartoline della collezione privata dell’artista.
Marsiglia. Picasso viveva di contraddizioni, nei suoi rapporti con le donne, in quelli con il mondo dell’arte, e nell’amore-odio che provava verso l’idea del viaggio: ne aveva infatti una concezione molto particolare, che intendeva non in senso geografico né interiore, bensì come “pellegrinaggio” all’interno delle proprie creazioni, a lasciar intendere una vita spesa unicamente per l’arte. Questa missione esistenziale non gli impedì tuttavia di compiere numerosi viaggi sia attraverso la Spagna, ma anche all’estero, dalla Francia all’Italia, a cominciare da quell’ottobre del 1900, quando Picasso fu a Parigi per rappresentare la sua patria all’Esposizione Universale.
Invece, in maniera indiretta conobbe approfonditamente l’Africa del Nord e il Giappone. Reale o fittizio che fosse, il viaggio fu per lui un potente stimolo artistico, ogni città, ogni cultura, ogni ambiente lo ispirava con i suoi colori, le sue atmosfere, la sua cultura, inserendosi nei suoi vari periodi, da quello Blu, avviato proprio a Parigi, a quelli del Cubismo orientalista ispirati dalle atmosfere africane.
A raccontare questo controverso rapporto, la mostra Picasso. Voyages imaginaires, curata da Xavier Rey, Christine Poullain, Guillaume Theullière, attraverso cartoline e documenti d’archivio, ma soprattutto i dipinti realizzati ispirandosi a particolari zone geografiche. E poiché il tema del viaggio ha accompagnato le varie fasi dell’arte di Picasso, la mostra di Marsiglia costituisce una sorta di antologica, dal 1901 al 1963, e soprattutto permette di conoscere opere poco note dell’artista, legate alla figurazione, ambito nel quale raggiunse vette di delicata poesia.
L’esposizione prende le mosse dal Periodo Blu, iniziato a Parigi, dove oltre a prendere parte all’Esposizione, Picasso ebbe modo di visitare i vari musei cittadini, dal Louvre al Luxembourg, oltre che le gallerie private che trattavano artisti come Van Gogh, Gauguin, Cézanne. Di quest’ultimo in particolare apprezzò la modernità dell’approccio formale, che precorreva il Cubismo, e ne utilizzò i canoni per realizzare opere ispirate allo squallore morale dei bassifondi parigini, frequentati anche dalla numerosa comunità di artisti, persi fra alcool, prostitute, cabaret, in un’esistenza che li poneva a diretto contatto con situazioni quotidiane difficili, segnate dalla povertà.
Di questa particolare realtà sociale, Picasso realizza intense testimonianze attraverso uno stile ancora legato alla figurazione; intenso e commovente l’Arlecchino del 1905, simbolo del mondo degli attori girovaghi e dei saltimbanchi di strada, dal volto emaciato e lo sguardo diretto in basso, come gravato dallo squallore della miseria. L’abito consunto che vorrebbe essere colorato, quasi si perde nell’azzurro grigiastro dello sfondo; a lui fanno eco i due compari del Pasto frugale (1904), frequentatori di quei rifugi per sbandati sul tipo del La Ruche, familiare anche a Lorenzo Viani.
I toni scuri di quest’acquaforte sembrano accentuare i corpi scheletrici dell’uomo e della donna (quest’ultima dal volto androgino e sgraziato), avvolti in laceri panni, lo sguardo perso nel vuoto. Opere toccanti, intrise di solitudine, che documentano il lato oscuro della vie de bohème. Ben presto però, nell’arte di Picasso sarebbe entrata la fascinazione per l’Oriente, che considerava come “la culla dell’umanità”; pur non essendovisi mai recato, lo conobbe a fondo studiando la pittura orientalista, ma anche attraverso le cartoline che riceveva da amici e conoscenti, ammiratori e mercanti d’arte.
Picasso intuì come dietro ognuna di quelle visuali si celasse uno sguardo, un punto di vista unico, e per questa ragione, di un medesimo luogo, ne collezionava più di una, con visuali differenti, per avere un quadro il più completo possibile del luogo stesso.
Apprezzava il potenziale fotografico della cartolina postale, non solo per i paesaggi. Infatti, nel 1905 compì un breve viaggio in Olanda, dove acquistò decine di cartoline con uomini e donne in costume locale, e lo stesso fece nel 1906, in occasione delle esposizioni sull’Oriente e sull’Africa che si tennero in Francia, quando acquistò quelle che ritraevano le donne nei loro abiti tradizionali. E al Museo del Trocadero vide per la prima volta quelle maschere tribali africane che tanto dovevano incidere sulla sua evoluzione artistica. L’Africa, con la sua anima primitiva, entrò nella mente di Picasso che in quelle forme arcaiche vide nuove possibilità espressive.
Il tratto si fa ancor più stilizzato, la realtà dell’individuo coincide con la sua essenza originaria, e la pittura si fa poesia, anticipando quelli che saranno i Miti inquietanti di Blaise Cendrars; il periodo “primitivo” è uno dei meno celebrati dell’artista, eppure nella sua brevità (appena due anni, fra il 1906 e il 1908), vide la nascita di opere d’arte legate alla radici dell’umanità. La maschera africana come una maschera greca, copertura del volto dal sapore teatrale, perché la vita in fondo è sempre stata una commedia. E feconda fu la frequentazione del mondo teatrale da parte di Picasso, che collaborò nel 1917, su invito dell’amico Jean Cocteau alla realizzazione delle scene e dei costumi di Parade, uno spettacolo da lui scritto per la celebre compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev.
Poiché la compagnia si trovava a Roma, Picasso si recò in Italia, dove, come molti altri prima di lui, rimase letteralmente affascinato dalla bellezza della città. Nonostante si fosse nel pieno della Grande Guerra, la vita intellettuale e artistica romana continuava senza sosta. Picasso poté così frequentare i circoli futuristi. Ma soprattutto frequentò i teatri, anche quelli di marionette, che lo affascinarono in maniera particolare, e raccolse molte idee anche per gli anni successivi.
Oltre a un costume e una maquette per Parade, la mostra propone alcuni dipinti ispirati al teatro, sui quali spicca Il palco (1921), dallo stile curiosamente modiglianesco, con le dame caratterizzate da lunghi, esili colli e gli occhi sottili. Da Roma, però, Picasso si era spinto fino a Napoli, Ercolano e Pompei, dove scoprì l’arte della civiltà romana, ma anche la scuola naturalista napoletana di Gemito, Palizzi e Gigante. E all’inizio degli anni Venti, anche Picasso conoscerà un breve fase di “ritorno” all’ordine, realizzando una serie di dipinti con soggetti di figure popolari ispirati appunti ai costumi popolari italiani, alle scene dei bassorilievi romani.
Con gli anni Trenta, e l’aggravarsi della situazione in Spagna prima, in Europa poi, Picasso scelse di rimanere in Francia, fra Boisgeloup e Parigi, dove nonostante l’occupazione nazista, stranamente non subì repressioni né violenze di sorta; fu colpito soltanto dal divieto di esporre le proprie opere. Pur nel caso di un’Europa di nuovo in fiamme, anche gli anni Trenta e Quaranta videro nuovi sviluppi dell’arte picassiana; l’artista studiò a fondo la scultura babilonese, assira e sumera, e nel suo atelier ne possedeva numerosi esemplari.
Come già accaduto con l‘arte africana, indaga ancora una volta lo spirito primitivo dell’umanità, ma, riecheggiando in parte Egon Schiele, apporta alla lezione del passato importanti cambiamenti: queste forme rotondeggianti si rivestono di linee cubiste, diventano i ritratti delle donne amate, ne scompongono i volti e creano corpi monumentali, nei quali il pieno e il vuoto creano volumi inconsueti. Anche la sua scultura risente dell’influenza dell’arte primitiva, e numerose sono le sue “Dee Madri”, antiche depositarie della fertilità della natura e dell’umanità.
Negli anni Cinquanta Picasso scopre la fascinazione per l’Oriente, da lui conosciuto soltanto attraverso le cartoline e le opere degli orientalisti, in particolare Delacroix; ma chi lo spinse a frequentare queste atmosfere, fu indirettamente Henri Matisse, del quale ammirava molto le Odalische, e le Femmes d’Alger ne rappresentano un omaggio, anche se solo nel soggetto, essendo il vocabolario plastico completamente picassiano. Negli anni Cinquanta, quindi, alla fascinazione per le antiche culture orientali (dai Babilonesi agli Assiri, fino alla civiltà ellenistica di Tanagra), si aggiunge l’interesse per quella araba che aveva a lungo dominata la Spagna, influenzando anche il meridione francese.
Al di là di una possibile lettura politica (il Nord Africa sta in questi anni combattendo per la propria indipendenza), i quadri “moreschi” di Picasso costituiscono una delle sue fasi artistiche più interessanti, densi come sono di colori, ma anche di sensazioni legati ai suoni e ai profumi di interni intimi e cerimonie raffinate. A livello di costruzione plastica dei corpi, l’influenza delle sculture orientali pre-arabe (escludendo l’arte islamica la raffigurazione del corpo umano), mentre gli elementi architettonici degli interni, e i decori sono di chiara derivazione araba.
Da questa affascinante mostra si comprende la complessità della ricerca che stava dietro l’arte di Picasso, il quale, a dispetto delle apparenze, guardava con curiosità alle culture di altri popoli, anche all’interno di quella fascinazione per il primitivo che si era sviluppata all’interno delle avanguardie. Ma non ci soni soltanto questioni formali; forse a livello più o meno inconscio, l’approccio verso la cultura moresca tradisce la nostalgia per la Spagna, così come i riferimenti all’Algeria sembrano quasi auspici per un rovesciamento, purtroppo non avvenuto, del regime di Francisco Franco.
Informazioni utili
Picasso. Voyages imaginaires
Centre de la Vieille Charité, 2 Rue de la Charité, Marsiglia
Dal 16 febbraio al 24 giugno 2018