La Galleria Robilant+Voena presenta a Milano una mostra antologica dedicata a Tino Stefanoni. Dai paesaggi metafisici alle Tavole, La realtà e la magia sarà visitabile dal 22 marzo al 27 aprile nello spazio della galleria.
All’infinito se durasse il viaggio.
Non durerebbe un attimo, e la morte
E’ già qui, poco prima.
Un attimo interrotto,
Oltre non dura un vivere terreno.(Giuseppe Ungaretti, Ultimi cori per la terra promessa)
Forse questo tempo in bilico sarebbe lo sfondo ideale per discutere con Stefanoni della sua arte, per immergersi con ogni fibra nel suo universo sospeso. Che sia un paesaggio misterioso o l’analisi metodica di un oggetto, l’artista ha sempre ricercato quella coordinata tesa tra l’ovvietà e la sorpresa, tra il quotidiano e l’ulteriore. In un terreno relegato tra ciò che è e ciò che sarebbe potuto essere, tra l’imminente e il concluso, Stefanoni costruisce un immaginario che nelle sue diverse sfumature ritorna sempre silenzioso a quella banalità irrisolta che è la vita.
Elena Pontiggia, che ha curato la personale di Tino Stefanoni alla Galleria Robilant+Voena di Milano, ci aiuta a comprendere il linguaggio con cui l’artista, scomparso solo pochi mesi fa, ancora cerca di comunicare con noi.
– Partiamo dal principio. La metafisica di Stefanoni sembra non cercare l’ignoto, ma indirizzarsi verso l’enigma di ciò che è ovvio. Questo rende la sua poetica differente da alcuni illustri predecessori come de Chirico e Carrà?
I quadri di Tino Stefanoni sono fatti di poche cose. Sono immagini ridotte ai minimi termini. Se deve dipingere un paesaggio gli basta una casa, un albero, magari (ma non è detto) una stella. Qualunque cosa entri nei suoi quadri subisce uno strano processo di semplificazione: come le bandierine, che appaiono dove uno meno se le aspetta, oppure certi piccoli pali e bastoni che non servono proprio a niente, se non all’armonia del quadro. Carrà può essere un punto di ispirazione, ma poi Stefanoni fa tutt’altro.
– Il piccolo formato dei “paesaggi magici” sembra invitare ad una fruizione individuale dell’opera. Uno sguardo intimo, solitario è propedeutico ad una massima esperienza del suo lavoro?
Stefanoni le immagini non le vede ma le pensa, filtrandole attraverso uno scrutinio severo, quasi da pittore astratto, che elimina il superfluo e ricostruisce tutto daccapo. Quello che rimane, in questo suo mondo di giocattoli dechirichiani, di paesaggi tracciati come teoremi su una tavola pitagorica, però privi delle certezze della scienza, anzi sempre più esitanti, come dimostrano i contorni incerti degli ultimi quadri; quello che rimane, dicevo, è una soffusa capacità di stupore, in cui si indovina un fondo d’ironia.
– Il lessico personale dell’artista emerge nel momento in cui decide di riprodurre sequenzialmente alcuni oggetti tratti dal quotidiano. In questa ulteriore banalizzazione del banale, dove emerge l’arte?
Risponderei con una dichiarazione dell’artista stesso. “Il mio lavoro – ha dichiarato Stefanoni nel 2012– al primo impatto è ovvio. E’ la presentazione, non la rappresentazione, degli oggetti, senza nessun intervento emotivo e viscerale. Gli oggetti che dipingo sembrano scontati, quasi banali, ma attraverso la mia pittura cerco di trovare in essi la poesia nascosta. L’ovvio, allora, può diventare intenso, denso di tante cose che in un primo momento non si considerano”.
– La mostra traccia una separazione netta tra i dipinti più spiccatamente metafisici e quelli dall’impianto geometrico-razionale, ponendoli su due piani distinti dell’esposizione. Vi possiamo però rintracciare un elemento di raccordo?
La mostra documenta tutto il percorso artistico di Stefanoni, dagli anni sessanta alle ultime opere, le Sinopie, che sono profili neri e grigi su fondo bianco, senza altro colore. Quella di Stefanoni è sempre stata un’arte che cerca l’essenzialità.
Il sito della galleria per ulteriori informazioni sulla mostra.