Il Musée d’Orsay rende omaggio alla semisconosciuta stagione del Simbolismo in Estonia, Lituania e Lettonia con la mostra Le anime selvagge. Il simbolismo nei paesi baltici. Fino al 15 luglio 2018.
In mostra 130 opere fra dipinti, sculture e incisioni, di artisti quali Oskar Kallis, Nikolai Triik, Peet Aren, Konrad Vilhelm Mägi, che segnarono la rinascita dell’arte baltica e contribuirono alla presa di coscienza identitaria dei loro connazionali.
Parigi. Nella contraddittoria Europa della fine dell’Ottocento, stordita dalle luci della Belle Époque e insieme spaventata da una modernità dirompente che stava sradicando l’antica civiltà rurale, accompagnata da una rinascita dei nazionalismi che agitava venti di guerra poi sfociati nel conflitto del 14-18. Il mondo dell’arte aveva reagito a questa condizione di disorientamento attraverso la pittura simbolista, nata in Germania e poi diffusasi nel resto d’Europa, tesa al recupero della mitologia antica. In quegli anni si avvertiva la necessità di una riflessione interiore, di un ripensamento di valori, o semplicemente di un modo per esternare inquietudini che erano familiari anche agli artisti stessi, alla base della cui ricerca stava quella grandiosità spirituale che rifulgeva nelle contemporanee arie di Richard Wagner (anch’egli frequentatore della mitologia germanica).
Il Simbolismo si ramificò in Europa assumendo differenti declinazioni; in Germania e Austria si legò all’indagine psicologica dell’essere umano, alla sua essenza più profonda che nascondeva però anche molti lati oscuri; in Francia, assunse carattere mistico ed esoterico attraverso il Salon de la Rose + Croix ideato dal critico, teosofo e occultista francese Joseph (Joséphin) Péladan (1858-1918), che anticipò la Secessione; mentre il Simbolismo “puro” di Böcklin e Redon restò fedele alla mitologia greca e latina. Accanto a queste correnti interne universalmente note nella storia dell’arte, se ne sviluppò un’altra che fu espressione di un’area appartata della geografia europea dell’epoca, ovvero quella baltica suddivisa in Estonia, Lituania, Lettonia, regioni inglobate nella Russia zarista e non ancora indipendenti.
Anime selvagge. Il simbolismo nei Paesi Baltici, ripercorre la stagione del Simbolismo nei Paesi baltici nel periodo compreso fra gli anni Novanta dell’Ottocento, quando nacque, e gli anni Trenta del Novecento, poco prima della perdita dell’indipendenza. La storia delle Repubbliche Baltiche è stata infatti assai tormentata, antichi principati assorbiti nei secoli dalla potenza dell’Impero Zarista, riuscirono a riguadagnare l’indipendenza all’indomani della caduta di quello stesso Impero, formalizzandola nel 1921.
Si aprì una nuova era, che ebbe però brevissima vita, poiché nel 1940 la regione baltica fu occupata dall’Armata Rossa, cui l’anno successivo subentrò la Wermacht, a seguito dell’Operazione Barbarossa. E l’orrore delle stragi e delle deportazioni si abbatté anche su quelle tre piccole ex Repubbliche.
Ma intanto, sul finire dell’Ottocento, sulle sponde del Mar Baltico si respirava aria di Mitteleuropa, anche grazie all’allentamento del rigido controllo zarista, che permise un certo sviluppo economico e soprattutto, la libertà di circolazione, che significò per gli artisti baltici la possibilità di frequentare l’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo, oppure quelle della vicina Germania, e l’influsso di quest’ultima fu fondamentale per la diffusione del Simbolismo, che all’epoca rappresentava l’avanguardia.
A causa delle chiusure che gravavano sulla regione baltica fino quasi a tutto l’Ottocento, il clima culturale stagnava, basti sapere che Richard Wagner, invitato nel 8137 a dirigere l’orchestra del Teatro Municipale di Riga, in Lettonia, lasciò l’incarico appena due anni dopo, disgustato dall’ignoranza del pubblico locale in materia di musica.
Anche la scena artistica accusava un forte ritardo sul resto d’Europa, essendo completamente digiuna, ad esempio, di impressionisti, preraffaelliti, ma il divario fu presto colmato appunto con la nascita del movimento simbolista, che ebbe un ruolo fondamentale nelle vicende politiche della regione, poiché il continuo e approfondito richiamo alle radici culturali di questi tre popoli contribuì in maniera determinante alla rinascita dell’orgoglio identitario, la cui logica conseguenza fu l’ambizione all’indipendenza dalla Russia zarista.
E il destino sembrò favorevole, poiché con la Rivoluzione del 1917 il distacco da Mosca poté divenire realtà. In linea generale, la pittura simbolista baltica fu una rivendicazione d’identità attraverso il proprio paesaggio naturale e soprattutto la propria storia, entrambi elementi fondanti di una nazione; ne scaturisce un’arte strettamente legata alla bellezza silenziosa dei boschi, delle montagne, della costa baltica, ai ,colori delle stagioni, un’arte fortemente permeata d’identità, volta a (ri)costruire quell’immaginario spirituale che la dominazione russa aveva affievolito.
La mostra parigina, suddivisa in tre sezioni, si apre con quella dedicata ai miti e alle leggende del Baltico, essendo il recupero delle radici mitologiche un tratto peculiare del Simbolismo, in chiave di riportare la spiritualità dell’individuo al centro di una società divenuta eccessivamente materialista. In Estonia la relazione fra la pittura e la mitologia fu particolarmente stretta, in virtù dell’esistenza del Kalevipoeg, una raccolta di testi antichi a metà fra la documentazione etnografica e l’invenzione letteraria; artisti come Nikolai Triik, Välko Tuul, Aleksander Mülber e Oskar Kallis frequentarono molto gli episodi della saga dedicata al leggendario sovrano estone.
Triik adotta uno stile dai colori vivi e dal tratto stilizzato, influenzato dalla corrente dello Jugendstil tedesco, e inserisce riferimenti iconografici tratti dalle saghe vichinghe, mentre Tuul e Kallis (membri del gruppo di giovani artisti Vikerla) utilizzano un tratto molto più corposo; la tavolozza di colori complementari crea un’armonia cromatica che sottolinea l’intensità delle scene, così come dei paesaggi.
Il lettone Janis Rozentāls (1866-1916) giunse al simbolismo dopo una formazione accademica vocata alla pittura naturalista, e le sue prime prove possiedono un leggiadro carattere bucolico: idilli luminosi dai caldi colori che poco dopo lasciano però il posto ad atmosfere più cupe mutuate dalla tradizione tardo-romantica tedesca, la medesima da cui proveniva anche Böcklin. Appaiono sulla tela creature folkloristiche come fauni, spiriti dei boschi, dèmoni, centauri, che come scrisse lo stesso pittore “sono altrettanto reali del paesaggio stesso”, perché sono il frutto “della terra e della natura umana”.
I racconti della regione della Dzūkija, nella Lituania meridionale, furono invece materia d’ispirazione per Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911): maghi, montagne, castelli, creature fatate, popolano le sue pitture dal delicato andamento rapsodico, i cui tenui colori suggeriscono atmosfere oscure e misteriose. Accanto al recupero dell’identità baltica, i pittori simbolisti sviluppano una narrazione puntuale della società dell’epoca. Secondo il lettone Teodors Ūders (1868-1915), era necessario rivestire il misticismo di forme familiari, “accarezzare” la realtà; una pittura del genere avrebbe portato all’umanità maggior piacere e nutrimento spirituale di quanto avessero fatto, ad esempio, Böcklin e i Preraffaelliti, colpevoli a suo dire di parlare soltanto a un pubblico di esegeti dell’arte.
Ūders sosteneva la necessità di un “simbolismo realista”, al quale però se ne contrapponeva un altro di stampo decisamente onirico. Un dialogo a distanza raccontata nella sezione intitolata L’anima, dedicata appunto al popolo baltico. I ritratti di Rozentāls appartengono alla prima “corrente”, intrisi di malinconico naturalismo, e caratterizzati da una tavolozza dai tenui colori; questa apertura al verismo francese (che influenzò anche la Scapigliatura italiana), conferma la rapida integrazione dell’arte baltica nel contesto europeo, e l’attenzione dei suoi esponenti alle novità espressive.
Lo stesso Rozentāls, poco prima della Grande Guerra, si avvicina ulteriormente al contesto parigino dipingendo La Principessa con la scimmia (1913), allegoria della femme fatale misteriosa e stravagante, circondata da un tocco di esotismo, apportato non soltanto dalla scimmia, ma anche dai gioielli di foggia orientale che le cingono le braccia e le caviglie. Solenni ed enigmatiche anche le donne ritratte dall’estone Konrad Vilhelm Mägi (1878-1925), che aveva assorbito i Fauves, gli Impressionisti, l’Espressionismo di Munch, e persino il giapponismo. La sua è una pittura malinconica e raffinata, e ancora oggi è ricordato ancora oggi come il capostipite della pittura estone moderna; vi portò infatti un universo di colori suggestivi e sfolgoranti, a tratti anche cupi, colori che descrivono la natura ma nascono dall’anima.
A una narrativa assai più cupa e onirica, appartengono invece le opere di Oskar Kallis, Nikolai Triik, Peet Aren, e Kristjan Raud, indagatori di atmosfere vicine alle ossessioni di Redon. La morte, l’angoscia, la sofferenza fisica, compaiono in dipinti e incisioni che sembrano medievali “danze macabre”, che riflettono i drammi attraversati dalle popolazioni baltiche, durante la guerra civile del 1918-1921 per raggiungere l’indipendenza.
Lutti e sofferenze che si aggiungevano a un clima generale già di per sé angoscioso, com’era quello del primo Novecento. Infine, la mostra parigina si chiude con un’ampia sezione celebrativa del paesaggio naturale baltico, caratterizzato da boschi di conifere e betulle, cupi e freddi laghi, e infuocati tramonti sul mare. Vaste distese di terre vergini, dove la natura domina incontrastata e della quale i pittori simbolisti catturano la straordinaria forza creatrice. Un universo primitivo, che nasconde anche l’essenza arcaica dell’umanità.
Il movimento simbolista baltico ebbe profonda importanza all’interno del processo di riscoperta dell’identità di quei popoli, e fu anche grazie a loro che nacque la spinta nazionalista verso l’indipendenza: non un nazionalismo violento, con impeti bellicisti verso altri popoli, ma semplicemente la rivendicazione della propria identità, e la ferma volontà di possedere uno Stato in cui esprimerla appieno.
Nonostante il loro talento, la loro importanza sociale, l’attenzione che ebbero per la scena artistica europea (la Germania, ma anche Parigi), paradossalmente l’Europa si dimenticò di questi artisti, i cui nomi, tranne pochissime eccezioni, sono a tutt’oggi sconosciuti al di fuori dei loro Paesi d’origine.
Anche per questa ragione, la mostra dell’Orsay rappresenta un momento importante, perché riporta all’attenzione generale personalità sensibili che seppero raccontare al mondo la cultura della regione baltica.
Informazioni utili
Le anime selvagge. Il simbolismo nei paesi baltici
Dal 10 aprile al 15 luglio 2018
Museo d’Orsay, 1 Rue de la Légion d’Honneur, 75007 Paris, Francia