L’Isola dei Cani: presentato in anteprima al Festival di Berlino, sbarca al cinema dal 1 maggio il nuovo attesissimo film di Wes Anderson.
Dopo il successo di Grand Budapest Hotel, Wes Anderson torna con un film animato. Come già in Fantastic Mr. Fox (un capolavoro) il regista di I Tenenbaum e Moonrise Kingdom punta tutto sull’animazione in stop motion per raccontare un’avventura in pieno stile Wes Anderson™.
La pellicola è stata il film d’apertura al 68ª edizione del Festival di Berlino dove ha vinto l’Orso d’Argento, il premio che viene assegnato al miglior regista in concorso.
In un futuro non molto lontano (2037) a causa di una malattia contagiosa trasmessa dai cani, il miglior amico dell’uomo ne diventa il peggior nemico. Il governo giapponese decide così di segregare tutti i cani su un’isola spazzatura, per contenere l’epidemia. Il giovane Atari Kobayashi, nipote del perfido sindaco, non ci sta e parte in un’avventura alla ricerca di Spots, il suo cane e guardia del corpo.
>> Prende così il via un’avventura di formazione canina che catapulta nuovamente lo spettatore nell’universo poetico e simmetrico di Wes Anderson in cui stramberia e bellezza si bilanciano alla perfezione.
Con un allestimento visivo mozzafiato e un occhio attento per il comportamento canino (tanto quanto per quello umano), Wes Anderson traspone un’avventura picaresca dei lontani echi disneyani dentro paesaggi post-apocalittici alla Mad Max, filtrandola attraverso il cinema giapponese di Yasujiro Ozu, Seijun Suzuki e -ovviamente- di Akira Kurosawa – in particolare Dodes’ka-den (1970), in cui paesaggi suburbani di baracche e discariche fanno da fondale alle avventure (quotidiane) di personaggi che vivono come emarginati: cieli arancioni e distese di spazzatura in cui tra putrido e poesia si alternano i gialli e i rossi primari tanto cari, da sempre, a Wes Anderson.
>> L’Isola dei Cani appare contemporaneamente innocente e geniale: dettagli squisitamente macabri ma elegantissimi (la preparazione del sushi, il trapianto di rene) si alternano a momenti in pieno stile slapstick (i combattimenti e gli inseguimenti).
Quella di Wes Anderson, cinefilo onnivoro e rigoroso, è una gioiosa “japonaiserie” post moderna, minuziosa e suntuaria, in cui gli effetti speciali dell’animazione, fotogramma per fotogramma, sono affidati a nuvole di cotone e fiumi di cellophane.
Alternando con dovizia sequenze rocambolesche e altre più meditative, si susseguono composizioni rettilinee e all’apparenza impassibili, enormi panorami da film western e complessi tableaux, primissimi piani in cui gli occhioni canini hanno una luce guizzante tanto quanto in quelli umani si alternano a diagrammi e rappresentazioni schematiche graficamente raffinatissime.
Con un simile pastiche, così ingegnoso e palpitante, anche Alexandre Desplat sembra essersi svegliato dal torpore e ha “messo assieme” una colonna sonora ricca di invenzioni, caratterizzata da una brillante sinergia tra ispirazioni occidentali e orientali in cui Toru Takemitsu (compositore di Dodes’ka-den) incontra Henry Mancini. Un viaggio musicale in cui trova posto anche la Troika di Prokofiev.