Ultime ore di “Raffaello e l’eco del mito”, evento proposto dalla Gamec in tandem con l’Accademia Carrara. Capolavori imperdibili di un genio precoce, che già a 17 anni poteva fregiarsi dell’appellativo di “magister”
Ci sono mostre che valgono la visita per quel pugno di capolavori autentici, pochi ma buoni, e non passati di grado per orchestrazione promozionale. Mostre che alla fine risultano godibili in quanto, né quantitativamente massicce né qualitativamente omogenee, offrono una prospettiva interessante e didascalica su un fenomeno. Vale dunque la pena di approfittare delle ultime ore di Raffaello e l’eco del mito, tanto più che l’evento alla Gamec propone il tandem con l’Accademia Carrara.
Si fa appena in tempo a salire la prima rampa di scale, che dell’Urbinate si sente, appunto, già l’onda di propagazione. È negli artisti contemporanei che l’hanno omaggiato, citato, manipolato: i d’après di Vezzoli e Ontani, gli impacchettamenti di Christo, la raffinata installazione di Paolini, l’avvolgente rosa e oro di Spalletti, le eteree statue viventi di Vanessa Beecroft… Nomi d’oggi che riveriscono un colosso della pittura, gigante, a quanto pare, fin da piccolo: il percorso parte, molto sinteticamente, dal retroterra costituito da suo padre Giovanni Santi e da Perugino, Pintoricchio, Signorelli. È nelle fertili Marche dei Montefeltro – qui rappresentate da Federico, immortalato da Pedro Berruguete, e da sua nuora Elisabetta Gonzaga, effigiata da Raffaello col sontuoso corpetto ad intarsi geometrici – che si forma e cresce un genio eccezionalmente precoce, il quale già a diciassette anni poteva fregiarsi dell’appellativo di “magister” e intorno ai venti firmava il San Sebastiano della Carrara.
Ed è intorno al “padrone di casa” – giunto nel 1836 in terra orobica, mercé il collezionista Guglielmo Lochis – che pulsa il cuore dell’esposizione: alla corte dell’efebico martire brillano opere tutt’altro che in soggezione, dal San Sebastiano di Perugino (col particolare, alquanto lezioso, della firma-freccia che va a conficcarsi nel collo), alla Maddalena del medesimo, mentre il siculo Pietro de Saliba e lo straordinario Memling danno ragione delle influenze fiamminghe. In una parola: eccovi serviti i capolavori.
Dopo questa vetta, l’itinerario sembrerebbe perdere di tono. Invece arriva la parte per così dire divertente, che si riallaccia all’“eco del mito” enunciato nel titolo e parzialmente già sviluppato nel prologo contemporaneo. Si tratta della celebrazione ottocentesca dell’“amoroso” Raffaello, irretito dagli occhi neri come tizzoni della bella Fornarina, senza la quale non riusciva a tenere un pennello in mano. Parte dunque la carrellata dei quadri di storia, e dalle pagine di questo romanzo sentimentale, e sensuale, emerge non solo il prezioso documento relativo alla fortuna toccata ad una figura già ammantata in vita da un alone leggendario (e cristologico), ma soprattutto quanto l’accostamento con l’originale sia impietoso: basti confrontare il sorriso della vera Margherita Luti (o chi per lei) con lo sguardo lascivo della ragazzona denudata nel dipinto di Cesare Mussini. Un’“eredità d’affetti” forse sincera, quella di Raffaello, ma decisamente scomoda da gestire. Scherza coi fanti, ma lascia stare… Santi.
Anita Pepe