Fino al 12 maggio 2018 a Castel dell’Ovo di Napoli, la mostra “Orizzonte Verticale” dedicata all’artista Camilla Borghese (Roma, 1977).
Diceva Le Corbusier che “l’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione al di fuori dei problemi di costruzione”, affermazione che si adatta al lavoro fotografico di Camilla Borghese, in cui il calcolo complesso della costruzione della forma e dell’immagine è celato da un’apparente godibile semplicità, dal senso della monumentalità e dell’ordine provenienti dalla lezione di Louis Kahn.
Nel contesto di Castel dell’Ovo, questa personale dal titolo Orizzonte Verticale, a cura di Marina Guida, propone 27 scatti (la maggior parte di grande formato) e una costellazione di piccole foto della serie Dialoghi urbani, (2014) che insieme creano un percorso spazio-temporale tra Roma, Milano e New York, sfiorando Napoli.
Con sguardo attento al ritmo della linea, ai canoni di proporzione e di armonia si apre un’indagine sul linguaggio architettonico occidentale. Borghese si muove con la stessa disinvoltura tra l’antichità romana e le costruzioni degli anni 2000, tra i palazzi rinascimentali e i grattaceli novecenteschi, catturando particolari ravvicinati, immagini frontali o scorci sfuggenti. Lo sguardo cristallizza dettagli e racconta stralci di città attraverso rigorose superfici geometriche.
L’approccio è meditativo e analitico. Assicurata la riconoscibilità del soggetto, il dato reale è spesso solo apparente. Parte della magia di queste foto è dovuta al sapiente uso del banco ottico che agevola l’aggiustamento prospettico e consente di agire sull’immagine producendo alterazioni impercettibili eppure sostanziali. Il gioco di questa manipolazione rispettosa è seducente, e non è solo una questione di forme o di spazi, il tempo e la luce – soprattutto – pesano quanto la geometria. L‘instant, il simbolo di perpendicolarità che troviamo in molti titoli, mette in relazione il soggetto con il luogo in cui sorge ma anche con le condizioni naturali che ne determinano la visibilità.
Gli scatti in mostra, realizzati tra il 2011 e il 2018, seguono un filo teso dall’antico all’attualità, da Roma a New York, e raccontano l’evoluzione di una ricerca che va dall’interesse per l’analisi della costruzione architettonica a quello per la fase progettuale dell’architettura. All’ingresso, il Tempio di Adriano a Roma e l’AT&T Building di New York, l’uno affianco all’altro, con la stessa cadenza ritmica delle linee, segnalano tale scarto e al contempo l’esistenza di un immortale principio di continuità.
Da un punto di vista formale, il Pirellone (2013) di Milano si afferma come il capostipite della virata astratta di Borghese, quella che poi si è consolidata oltreoceano. Qui per la prima volta viene adoperato l’artificio della sovraesposizione, che nello specifico appiattisce le superfici accentuando il particolare grafico dello “spacco”, elemento emblematico dell’edificio la cui visione diafana si aggrappa alla realtà dello spazio urbano solo attraverso l’esile presenza di un lampione e di un albero.
È a Milano quindi che trova concretezza l’esigenza di epurare le forme e imboccare la via di una ricerca attenta alla qualità delle superfici, ma sempre più propensa a sottintendere la materia lasciando affiorare l’idea che anticipa la forma costruttiva. L’esaltazione della bidimensionalità sintetica e realizzativa del disegno, l’accentuazione della griglia geometrica, nonché l’uso della sovraesposizione sono i caratteri sostanziali delle foto newyorchesi che appaiono più libere, più leggiadre, sin dal primo scatto in ordine temporale, il Seagram Building di Mies Van der Rohe (2017), fino al Citycorp, la cui verticalità si tramuta in un’inaspettata fuga orizzontale che scompiglia i piani.
In questo quadro, possiamo considerare il particolare della facciata della Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli (2018) un punto medio tra Roma e New York, tra il classicismo romano – ove il peso della storia si sente di più, nell’alternanza di pieni e vuoti, nei volumi solidi – e la rarefazione bidimensionale newyorchese. Napoli si inserisce come un interessante esperimento sulla via dell’astrazione: una cosa è “asciugare” un grattacielo del XX secolo, tutt’altra è agire su una facciata del ‘600. Eppure il bugnato a punta di diamante della Chiesa del Gesù Nuovo, con la sua qualità fortemente plastica e la straordinaria modernità, offre all’artista l’opportunità di osare, di tentare un’operazione di “astrazione del barocco” grazie alla sovraesposizione e all’inclinazione rapida dello scorcio.
Ma astrazione non significa semplificazione e nulla è lasciato al caso. Un lavoro come ⊥. 19:18. NEW YORK Empire 1932 (2017), stampato su carta cotone Turner, a superficie ruvida, con l’apparenza di un disegno seppiato e una cornice arrugginita pensata ad hoc, ci dice quanto i dettagli restino cruciali, quanta cura ci sia nel rapporto con i materiali e i supporti; ci dice anche che ogni elemento è parte di una progettualità maniacale – che sarebbe anche l’aggettivo più adatto a ⊥. 19:36. NEW YORK Flatiron 1902 (2017).
Per chiudere, vorrei accennare alla serie delle 16 palazzine che richiederebbe una riflessione a sé, considerando gli spunti peculiari e difformi dal resto della produzione: l’inedita serialità, l’approccio quasi asettico, classificatorio, la rigorosa frontalità e la neutralità della luce sono tutti fattori che ne denunciano la prossimità stilistica, quanto meno, al linguaggio inaugurato dai Becher negli anni Settanta.
Le ragioni formali riflettono un intento quasi scientifico che non troviamo nelle altre foto. Si tratta infatti di esempi di edilizia residenziale d’autore rispondente alle esigenze abitative della borghesia romana degli anni ’50 in cui l’artista va a ricercare l’applicazione su piccola scala di specifici principi applicati a grandi progetti. Ma si tratta pur sempre di un’indagine sulle costanti che si ripetono oggi come ieri, a Roma, Milano, Napoli o New York.
Informazioni utili
Camilla Borghese – Orizzonte Verticale
Dal 21 aprile al 12 maggio
Castel dell’Ovo, via Eldorado, 3, Napoli
A cura di Marina Guida