Sudari è la mostra che racconta l’ultimo approdo artistico di Gianluigi Colin. Il ciclo delle grandi ‘roto-pitture’ sono segnali di una ricerca a ritroso verso ciò che ricordiamo di ciò che è stato raccontato. Curata da Bruno Corà e Aldo Colonetti, presso la Triennale di Milano dall’11 maggio al 10 giugno.
La realtà scende e si scioglie. Si sgretola liquida perdendo i propri contorni e si inviluppa con lo sfondo, con la matrice da cui è scaturita e da cui ora idealmente ritorna. Come fosse acqua assorbita dalla terra si insinua nelle crepe del suolo, si muove in negativo ad occupare uno spazio invisibile ma in cui resiste la scia di quello che stato. Il mondo si fa impronta di se stesso, cede la sua dimensione tangibile in favore di una traccia astratta che se seguita attentamente conduce fino alla totalità del creato.
O almeno ad una parte di esso, a quella frangia di vita che nasce dalla contingenza quotidiana per trasferirsi lungo sentieri più o meno nitidi e comprensibili fino ad un foglio di giornale. È l’eternità temporanea di un evento di cronaca. Estratto dal flusso continuo di storie ed avvenimenti, il soggetto selezionato guadagna consacrazione agli occhi dei sui cugini più sfortunati (o fortunati, a seconda dei casi). Nel tempo di quel movimento leggero che con due dita sfoglia la pagina, una piccola grande catena di azioni risplende di un’eco che da privato si fa collettivo e riverbera, per quel che può, negli occhi di chi lo legge. Le sfaccettate esistenze di un’umanità muta acquisiscono l’illusoria voce di chi per un attimo si è sentito ascoltato.
Ma il giorno passa e va, la notizia passa e va, l’uomo passa e va e di tutto il suo affannarsi, rimane la frenetica ricerca di un riparo e l’antica speranza che in questo sbracciarsi risieda l’essenza della vita. Gianluigi Colin (Pordenone, 1956) raccoglie questa speranza come fosse condensa che lacrima via da ogni giornata, come un giornale buttato insieme alle sue storie disilluse. L’artista si appropria dei grandi tessuti utilizzati per pulire le rotative di diversi quotidiani e ne esalta le proprietà concettuali elevandoli ad opere d’arte. Le chiama ‘roto-pitture‘, ready-made privi di alcun intervento eccetto quello della loro scelta e dimensionamento. Sono come un lontano profumo scoperto per caso, muovendosi sul retro di un ristorante di quella città in cui ci si è fermati casualmente ma che conserva la scia di un qualcosa di vissuto ma sfumato, di leggero ma persistente, un flebile rimando a qualcosa che di certo è stato e che forse, da qualche parte, è ancora.
Nascono così i Sudari, una sequenza di opere astratte generate da sedimentazioni cromatiche, striature ripetute, campiture dilatate nello spazio. I tessuti custodiscono la traccia dell’impronta che ha segnato il giornale, rappresentano il supporto del residuo del ricordo dell’evento raccontato. Immersi nei solchi colanti di queste opere ci troviamo a muovere i nostri passi nello scorcio di un riflesso, una riduzione della riduzione del mondo. Ad ogni gradino che scendiamo il dato reale perde come fili da uno straccio i dettagli che lo definivano, si spoglia del suo corpo fino a coincidere con la rievocazione della sua essenza.
“In queste tele riconosco le infinite storie di una umanità invisibile. Una memoria sospesa in un tempo che ogni giorno si rinnova: volti di donne e uomini, cronache di vite dolenti sovrapposte a fragili racconti di felicità. Ma qui il presente improvvisamente si dissolve: diventa sostanza informe, stratificazione di colori, pura astrazione” (Gianluigi Colin)
Possiamo affermare che Colin riesce con questo ciclo a sintetizzare in un unico progetto la sua anima da artista, quella di art director e quella di giornalista. Sceglie come campo di indagine lo scivoloso terreno della mitologia dei quotidiani, della divulgazione mediadica, operando un lavorio volto a far scaturire l’intimo dall’universale. L’artista-giornalista si trova nella privilegiata situazione di poter osservare il mondo farsi storia, di meravigliarsi per primo del costruirsi inesorabile della vita, pezzo dopo pezzo, anche quando il tassello successivo sembra proprio non arrivare. Dalla sfera del creato al filtro universale dei media, un sentiero tortuoso che passa dalla memoria collettiva fino a sedimentarsi in quella individuale. È un lungo processo dunque, che necessita del tempo e della possibilità di ridurre, nei minimi termini, un’esperienza che nella sua nitidezza non possedeva il medesimo potere evocativo. Ora ne rimane solo un rimando, un suggerimento: è il Sudario della parola che un tempo è stata vita.
“I Sudari di Colin offrono una perentoria immagine di eloquente dissolvimento di ansie, cure, ambizioni, misfatti, speranze, imprese, drammi, sogni e menzogne di ogni giornata irreversibilmente trascorsa” (Bruno Corà, curatore della mostra)
Il sito ufficiale del museo per ulteriori informazioni.