Achille Castiglioni, nell’anno del centenario della nascita, viene celebrato dal m.a.x. di Chiasso. L’alfabeto allestitivo di un designer regista raccoglie documenti originali, modellini di allestimento, oggetti originali o riproduzioni che deliano la carriera di un architetto fuori dal comune. Curata da Ico Migliore, Mara Servetto, dall’architetto Italo Lupi e da Nicoletta Osanna Cavadini, direttrice del museo, la mostra sarà aperta al pubblico fino al 23 settembre.
“La forma, che bella funzione”
Achille Castiglioni
La funzione è il risultato meccanico della forma? O è la forma a essere mera manifestazione dell’attività? Il dibattito ha origine antiche e, nonostante sia stato continuamente arricchito e alimentato da filosofi e studiosi, ha finito sempre per arrotolarsi sull’asse del paradosso. Per Achille Castiglioni (1918-2002), architetto e designer milanese, la forma deriva da una problematica della funzione risolta con coerenza e semplicità. La forma diventa quindi essa stessa una funzione, una manifestazione che incontriamo nello spazio e che non può essere separata dallo scopo a cui è adibita. Non vi è dunque scarto fra forma e funzione, ma coincidono nella sintesi tra l’esteticamente bello e il concretamente valido. Bellezza e partecipazione attiva sono i punti cardine delle creazioni di Castiglioni, architetto visionario al servizio del design, capace di dare vita nel corso della sua lunga carriera ad oggetti entrati tanto nelle case dei consumatori quanto nei musei.
“L’oggetto di design non deve essere di moda. La moda è fatta per passare di moda, appunto. Il buon design deve restare nel tempo, sino a consumarsi”
Achille Castiglioni
Gli oggetti ideati da Castiglioni nascono spesso da una problematica quotidiana – il mal di schiena della moglie, una luce troppo fastidiosa, un oggetto dall’utilità limitata – convertita in opportunità. Il risultato è un prodotto allo stesso tempo complesso e semplice, frutto di immaginazione e invenzione. Sbalordisce nella sua apparente banalità, tanto che viene da pensare che sia assurdo che nessuno abbia pensato di farlo prima, e non stanca mai nella sua assoluta genialità. Come la lampada Toio, soluzione ready-made di duchampiana memoria. Alta, sottile, leggera, elegante riesce a combinare la facilità dello spostamento ad un preciso utilizzo. Il fanale dell’auto che la sormonta, richiede infatti di essere indirizzato per poter illuminare un solo determinato punto alla volta. Innovazione e partecipazione, dunque. La stessa che richiede il sedile da giardino Allunaggio, che sorretto da tre sottili gambe in acciaio è facilmente trasferibile e somiglia a un grande ragno in movimento.
E l’ironia, naturalmente. Il senso del gioco e della leggerezza sono stati la vera forza di Castiglioni. Entrando nella prima sala della mostra Io Castiglioni lo spettatore è subito ingannato da uno specchio posto a 45°, che illude chi ci si perde dentro di una dimensionalità fittizia del luogo. Lo stesso specchio era posto nello studio dell’architetto, che ad un primo sguardo appariva di fronte a te, quando in realtà sedeva nella stanza attigua. Un trucco semplice ma efficace, eco di un approccio visionario al quotidiano, presente anche in atri lavori esposti come le lampade Arco, Aoy, Ipotenusa, gli sgabelli Mezzadro e Sella o le posate Dry che bel esprimono l’atteggiamento unico di Castiglioni, capace di tradurre nel campo del design ogni tipo di suggestione.
“Vedo gli oggetti come se fossero a centro di una rete di relazioni con l’ambiente, relazioni di affetto e di reciproca simpatia”
Achille Castiglioni
Se l’oggetto in ultima istanza viene definito dallo scopo a cui è adibito, è impossibile separare il suo conseguimento dallo spazio in cui questo avviene, le cui relazioni sinergiche determinano il completamento della funzione. Achille Castiglioni possedeva questa visione d’ambiente e i numerosi progetti allestitivi, i cui disegni e documenti originali sono in mostra grazie alla partecipazione della Fondazione Achille Castiglioni, ne testimoniano il valore. La storia di grandi progetti espositivi, come quelli dei Padiglioni per Rai, Eni e Montecatini, è raccontata grazie al carteggio con le istituzioni, bozze di allestimento, progetti architettonici presenti nelle sezioni Percorsi per l’arte e il design, Teatri per l’innovazione, Paesaggi di segni e prodotti. La visione d’insieme di Castiglioni lo ha portato combattere la natura passeggera degli allestimenti utilizzando una tecnica quasi registica, in grado di raccontare oltre che a mostrare. La fisicità dei singoli elementi è superata dalla complessa sinergia di architettura, grafica, scenografia, tecnologia illuminotecnica e audio. Il risultato è una sorta di montaggio dello spazio espositivo più narrativo che estetico, come se lo spettatore si trovasse rapito da una successione di scene, destinate poi a lasciare una traccia, come una storia, che sopravvive all’esistenza limitata dell’esposizione.
Celebre la soluzione trovata da Achille Castiglioni, con l’aiuto del fratello Pier Giacomo e dell’amico e grafico svizzero Max Huber, per il padiglione della Montecatini in occasione della mostra Chimica = undomani + sicuro, presentata alla fiera di Milano del 1967. Partendo da un’apparente limitazione imposta dallo spazio espositivo, che si estendeva verso l’alto a discapito dello dimensione orizzontale, il gruppo trova un espediente capace di sorprendere e affascinare. I soffitti vengono infatti abbassati fino ad un’altezza di circa 2,20 metri al fine di costringere il visitatore in una condizione di disorientamento spaziale e visivo. Il contenuto dell’esposizione appariva solo nelle sezioni localmente sfondate verso l’alto, costringendo lo spettatore, proprio come al cinema, al ruolo attivo e partecipativo di alzare lo sguardo al contenuto e al futuro a cui la società (ma anche Castiglioni) voleva indirizzarsi.
Il sito ufficiale del museo per ulteriori informazioni.