«Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante», diceva il filosofo Friedrich Nietzsche. Lo sa bene Gesuino Némus, all’anagrafe Matteo Locci, tra le voci più luminose della narrativa italiana contemporanea. Sardo di Jerzu, l’autore ha appena compiuto 60 anni, di cui 57 vissuti senza aver dato alle stampe nessun libro. Poi, nel 2015, il folgorante esordio: con “La teologia del cinghiale”, edito da Elliot, si aggiudica il Campiello Opera Prima, il Premio Opera Prima Master in Editoria Fondazione Mondadori, il John Fante e il Selezione Bancarella.
Tra un riconoscimento e l’altro Gesuino – fedele alla sua casa editrice indipendente, nonostante le lusinghe di molte big – trova il tempo per scrivere altri due volumi: “I bambini sardi non piangono mai” (2016) e “Ora Pro loco” (2017), che confermano le sue eccezionali doti di narratore. In questi mesi è alle prese con la stesura del quarto romanzo, “Il catechismo della pecora” ed è già in programma un quinto titolo: “La dottrina del cannonau”.
Lo abbiamo incontrato una sabato mattina di giugno nel suo bar di fiducia alle porte di Milano. Mentre porta il caffè al tavolo, l’amico-titolare Walter Grossi mi avvisa: «Da quando c’è lui, nessuno sbaglia più un congiuntivo». E mi torna subito alla mente una frase del suo primo romanzo: «Molti sono ancora convinti che il congiuntivo sia una malattia della cornea», che la dice lunga sul suo amore per la lingua e la cura per le parole. L’intervista prende la forma della chiacchierata, a tratti del monologo, e subito si coglie la cultura enciclopedica così come la profonda umanità di una persona indissolubilmente legata alle sue radici sarde, eppure milanesissima.
– Quando ti sei trasferito a Milano?
Da adolescente, all’età di 16 anni. Sono venuto qui da solo dalla Sardegna per lavorare e mantenermi. Erano gli anni Settanta, quelli delle fabbriche e della cultura universitaria. Da allora ho sempre vissuto qui, anche se torno spesso a Jerzu, nell’Ogliastra, dove sono nato e ho trascorso la mia infanzia. Il mio paese si trova in una delle tre zone blu d’Italia – l’età media arriva a 92-94 anni – ed è famoso per la produzione del vino cannonau, a cui voglio dedicare il quinto romanzo. Si tratta di un’opera complessa, forte, in cui ho intenzione di parlare del mio rapporto con mio padre, un pastore analfabeta a cui io stesso ho insegnato a scrivere la firma… Ma non farmi dire di più se no poi Lorella Santini, la direttrice editoriale di Elliot, si arrabbia.
– Si dice che tu abbia fatto una trentina di lavori prima di approdare finalmente alla scrittura. È tutto vero?
Sono 28, per la precisione. Ho lavorato nei campi, in fabbrica, come addetto allo scarico merci nei supermercati, come correttore di bozze nelle case editrici. Ho fatto anche il copy per alcune agenzie pubblicitarie, l’attore professionista, l’autore di testi televisivi e teatrali… Poi, a 55 anni, mi sono ritrovato ad essere disoccupato: tagliato completamente fuori dal mercato. In quel momento di grande sconforto mi sono guardato dentro, mi sono chiesto: che cosa so fare? Il mio dono è la scrittura, scrivo da quando ero piccolo e negli anni ho avuto l’intuizione di conservare tutti i miei testi. All’improvviso ho capito che era il momento di far venire alla luce quel romanzo che “covavo” da tutta la vita. Mi sono messo al pc, ho riunito i vecchi manoscritti, le pagine a macchina e ho proseguito la stesura, scrivendo fino a 40-50 cartelle al giorno. Così è nata “La teologia del cinghiale”. La prima pagina risale al 14 maggio del 1970: avevo 12 anni e mi trovavo in un istituto religioso.
– Perché da Matteo Locci, il tuo nome di battesimo, hai deciso di trasformarti in Gesuino Némus?
Ho fatto firmare il romanzo al personaggio principale, che poi si ritrova anche nel secondo e nel terzo libro. Si tratta di uno pseudonimo, o meglio di un eteronimo, alla Pessoa. Némus in sardo vuol dire nessuno, mentre Gesuino è un nome molto comune sull’isola, come potrebbe essere Luigino o Ambrogino a Milano. Volevo che il mio alter ego letterario fosse uno tra tanti; è nato quando mi sentivo davvero nessuno. Dietro alla scelta c’è anche un omaggio al mio eroe preferito, Ulisse, che alla domanda «Chi sei?» del ciclope Polifemo, risponde appunto «Nessuno». Solo alla firma del primo contratto, ho svelato il mio vero nome. E poi è arrivata la selezione al Premio Campiello e la mia identità è diventata pubblica a tutti gli effetti.
– Ci puoi raccontare di questo importante riconoscimento?
Ricorderò sempre l’emozione mentre ascoltavo le motivazioni della giuria, lette dal presidente Ernesto Galli della Loggia. Ha parlato di «una voce ricca di affabulazioni, un romanzo saporosamente antropologico e un’orchestrazione davvero sapiente, che sa tenere la tensione». Sono molto legato al Campiello anche per la sua formula, che prevede una duplice giuria per decretare il vincitore. Le opere selezionate passano al vaglio di quella tecnica “dei letterati”, ma anche di quella popolare, costituita da 300 lettori anonimi, distribuiti in tutte le regioni d’Italia e rappresentativi di varie categorie sociali e professionali, selezionati di anno in anno. Insomma, un grande lavoro di valutazione svolto con assoluta serietà.
– Tutti i tuoi libri sono ambientati a Telévras, un paesino immaginario della Sardegna. Quanto c’è di autobiografico rispetto a Jerzu?
Inevitabilmente moltissimo. Vari personaggi e situazioni s’ispirano alla mia infanzia e alla prima adolescenza vissuta sull’isola. Sono cresciuto in una famiglia povera, ultimo di sei figli. La Sardegna degli anni Cinquanta e Sessanta era un luogo decisamente isolato dal resto del mondo; i primi turisti sono arrivati in costa Smeralda negli anni Settanta. Ero un bambino molto libero e immerso nella natura: mi muovevo a piedi, partivo all’alba e raggiungevo il mare camminando anche tre o quattro ore. Ancora oggi cammino molto, è così che ho conosciuto profondamente Milano.
– Sei stato anche un grande appassionato di libri da bambino.
Dai sei anni in poi, il mio hobby preferito era la lettura. Appena mi regalavano un libro, lo divoravo. Come dico sempre: è stata la lettura a rendermi umano, sono fermamente convinto del suo potere terapeutico. Non a caso, nella prima stesura della “Teologia del Cinghiale” c’era un passo che diceva: «E quando vi sentite poco bene, prima di andare dal farmacista, entrate da un libraio: spendete meno e vi divertite di più».