Una retrospettiva sull’arte del primo dopoguerra racconta in 150 opere, dal 1916 al 1932, la tragedia che aprì il Novecento e portò ai totalitarismi. Alla Tate di Londra fino al 23 settembre 2018.
L’Europa che nel novembre del 1918 cercava di rialzare la testa, stentava a riconoscersi, a mettere a fuoco l’entità della tragedia che l’aveva colpita: oltre nove milioni di caduti, altrettanti milioni di mutilati e invalidi, sistemi economici al collasso, ovunque angoscia e disperazione.
Questa era l’eredità lasciata da quattro anni di sanguinoso conflitto che aveva ridisegnata la mappa geografica del Vecchio Continente: scomparsi gli Imperi Centrali e l’Impero Ottomano, erano nati al loro posto nuovi Stati nazionali, adesso alle prese con la ricostruzione, ma soprattutto con la creazione di una precisa identità.
Se il quadro era pesante per i Paesi vincitori, a causa dell’inevitabile crisi economica, ancor più lo era per quelli sconfitti, in particolare la Germania, costretta al pagamento di ingenti danni di guerra e vittima di un’inflazione senza precedenti, oltre che di un disagio sociale portato dalla disoccupazione dilagante.
La Germania di Weimar fu un epicentro di tensioni che, in retrospettiva, fecero gli anni che vanno dal 1914 al 1933 (anno dell’ascesa di Hitler al potere), un ininterrotto cammino verso la Seconda Guerra Mondiale; le dure condizioni di pace cui fu soggetta, dalle riparazioni per svariati miliardi di marchi, alla fornitura obbligatoria di carbone e acciaio a Francia e Gran Bretagna, istillarono nei tedeschi un latente desiderio di vendetta che sfociò in violento nazionalismo, e poi nella dittatura hitleriana.
>>> L’arte, che oltre a innovare la società è anche capace di osservarla, ha raccontato quegli anni drammatici, ha scavato nelle angosce morali e nelle sofferenze fisiche di interi popoli; molti artisti avevano combattuto nelle trincee, avevano vissuto di persona la quotidianità di fango e proiettili, e quelli che erano sopravvissuti dovevano combattere una nuova battaglia per riadattarsi alla vita civile; il disagio della società era anche il loro.
Paradossalmente, gli anni Venti furono un periodo vivace dal punto di vista artistico, poiché pittori e scultori avvertivano la necessità di un radicale cambiamento del punto di vista da cui raccontare la realtà, ma anche per trovare maniere espressive attraverso cui esprimere l’inesprimibile, appunto la sofferenza della guerra. La prima su scala mondiale, con pesanti contraccolpi psicologici anche sulla popolazione civile.
La mostra Aftermath: art in the wake of World War One, racconta quel controverso periodo che, paradossalmente, per l’arte, e la cultura europea in generale, fu vivace e prolifico, nonostante il malessere di cui era intriso. La violenza inaudita cui i soldati al fronte si trovarono loro malgrado sottoposti, ebbe pesanti contraccolpi sul loro morale, e sin dall’inizio caratterizzò la Grande Guerra come un evento del tutto nuovo nella storia militare, considerando anche l’impiego di nuove armi dal potenziale distruttivo mai visto sinora.
Molti artisti si trovavano al fronte, e vollero fissare le impressioni di quello sconvolgimento epocale: ci si interrogava sul senso di quelle migliaia di morti quotidiani, se veramente la “ragion di Stato” avesse il potere di chiedere e ottenere simili stragi; in Gran Bretagna e in Francia nasce quello che può essere definito il “naturalismo di guerra”; William Orpen, Paul Nash, Felix Vallotton, Paul Jouve, riportano sulla tela scene di combattimenti, campi di battaglia, cimiteri di soldati; lontani dalle oleografie ottocentesche, senza retoriche declamazioni, queste pitture si affidano a una pennellata quasi espressionista, cupa, spigolosa, che si erge sulla tela come una denuncia della strage che stava prostrando l’Europa. E nel suo Sentieri di gloria (1917), il pittore inglese Christopher Richard Wynne Nevinson racchiude in un amaro titolo l’assurdità di quella strage.
Fra le ceneri di un’Europa da ricostruire, anche l’arte, secondo alcuni, doveva essere rifondata. Questo era l’intento dei Dadaisti, immediati precursori dei Surrealisti.
Ad aprire la strada a questa rivoluzione estetica e concettuale fu, nell’estate del 1916 a Zurigo, il gruppo del Cabaret Voltaire che si riuniva attorno a Tristan Tzara, Marcel Janco e Hans Arp: tenendo una sorta di “conferenze recitate”, questi artisti rovesciavano sul pubblico il loro turbine sovversivo riassumibile nel rifiuto del concetto di bellezza, degli ideali, della ragione positivistica, del progresso e del modernismo, ai quali contrapporre l’ironia, la provocazione, l’irrazionalità.
>>> Si trattava di rifondare l’arte rompendone qualsiasi schema logico, e in un certo senso si tratta di un’anticipazione di quella che sarà la creatività artistica indotta dagli stupefacenti fra gli anni Cinquanta e Sessanta.
I Dadaisti riportano la fantasia al potere, in anticipo sul ’68, così come gettano le basi per quell’arte “liberata” che Dubuffet chiamerà più tardi Art Brut. Alla radice di questa urgenza creativa, l’inconscia ribellione contro un malessere sociale e morale causato dallo sradicamento della millenaria società rurale europea, attraverso la massiccia espansione della civiltà industriale, che a sua volta aveva generata la corsa al profitto, la corsa agli armamenti, e il primo inurbamento su larga scala che portò numerosi disagi materiali e morali al ceto ex contadino divenuto operaio.
Se Dada cercava di oltrepassare la violenza della guerra, in Germania la corrente artistica della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) immortalava impietosamente la triste quotidianità di una società degradata, che faceva largo uso di stupefacenti (come il famigerato Pervitin, un’anfetamina largamente commercializzata nelle farmacie), che vagava in città afflitte dalla disoccupazione e dalla fame, dove la prostituzione dilagava, segno di quel degrado morale che sempre segue le guerre e la povertà che si lasciano alle spalle.
>>> Otto Dix, George Grosz, Max Ernst, Kurt Schwitters, sono gli esponenti più impietosi di questa corrente pittorica, le cui opere sono grida di dolore, ferite aperte su quel corpo martoriato che era l’Europa, e la Germania in particolare.
Grosz, in Giornata grigia (1921), sintetizza la situazione sotto la Repubblica di Weimar, accusando la borghesia di essersi arricchita con le speculazioni di guerra, alle spalle del popolo e dei soldati combattenti, simboleggiati dal reduce mutilato in secondo piano.
Il movimento ebbe una certa influenza anche all’estero, come appare dalle tele dell’inglese Edward Burra: se la Gran Bretagna non aveva conosciuto lo sfacelo morale tedesco, era tuttavia anch’essa pervasa da quella strana, ingannevole ebbrezza per la pace (purtroppo provvisoria), che aleggiava nel Paese. Ma il malessere è evidente, la società è esacerbata da lotte sindacali, rivendicazioni dei reduci, manifestazioni di nazionalismo, povertà.
Nei sedici anni abbracciati dalla mostra, si percepisce tutto lo sgomento dell’arte davanti a una società che stenta a riconoscere rispetto a pochi anni prima, che sempre più sta cadendo nell’abisso preconizzato da Nietzsche. La mostra si chiude significativamente con il 1932; l’anno successivo Adolf Hitler prenderà il potere in Germania, e fra i suoi numerosi atti scellerati, avvierà anche una dura campagna contro la cosiddetta “arte degenerata”.
>>> Il clima europeo si farà sempre più cupo, fino a sfociare nell’aperta ripresa delle ostilità. L’arte sembra presentirlo, così come preconizza l’avvento di una società sempre più avida, dove il denaro della civiltà industriale e meccanizzata ha il sopravvento sulla solidarietà fra individui della vecchia società rurale.
I “mostri metallici” di Oskar Schlemmer, Jacob Epstein o Georg Grosz, le metropoli affogate di grattacieli di Nevinson e Citroen, gli orridi club affollati e impregnati di anfetamine; in queste immagini gli artisti sintetizzano la società del futuro, una società sbandata, superficiale, individualista, esasperata. Anche in virtù di questa sezione di chiusura, questa mostra di respiro europeo resta fortemente attuale: nel ribadire l’atrocità della guerra, e nel documentare come il baratro imboccato un secolo fa, non sembra aver ancora mostrato il suo fondo.
Aftermath: art in the wake of World War One
5 giugno – 23 settembre 2018
A cura di Emma Chambers e Rachel Smith
TATE BRITAIN
Millbank
London SW1P 4RG