Uno sguardo sul Modernismo dell’Europa Orientale, che non fu soltanto quello della scuola russa di Kandinsky, Rodchenko, Larionov. Al Moderna Museet Malmö una retrospettiva sulle due principali figure dell’arte polacca fra le due guerre. Fino al 2 settembre 2018. www.modernamuseet.se
Malmö. Pur segnata nei secoli da invasioni, distruzioni, deportazioni, pogrom, la Polonia ha saputo inserirsi nel panorama dell’arte d’avanguardia europea già all’indomani della riconquistata indipendenza al termine della Grande Guerra. Nella giovane Nazione giovane, nata a seguito della capitolazione tedesca del novembre 1918, si guardava al futuro con la speranza della pace e della prosperità, nell’ottica di poter costruire, anche grazie alla neo costituita Società delle Nazioni, un mondo senza guerre e sperequazioni. Anche gli intellettuali e gli artisti si sentivano impegnati in questo cammino di crescita civile, che in Polonia fungeva anche da processo di costruzione dell’identità nazionale; fra i più attivi ci furono Katarzyna Kobro e Władysław Strzemiński, considerati i fondatori del Modernismo polacco,che si ispirava in parte alle esperienze russe, per ovvia contiguità territoriale, ma anche alle “contaminazioni” olandesi, ovvero alla commistione fra arte e architettura che Mondriaan e van Doesburg avevano realizzata all’interno di De Stijl. Le ferite e le macerie lasciate dalla guerra rendevano necessario un ripensamento della maniera di guardare alla realtà, ma questa urgenza si inseriva in un mutato sentire sociale, ormai fortemente influenzato dalla tecnologia, dalla dimensione industriale, e da una latente angoscia che spingeva ad allontanarsi sempre di più dalla millenaria civiltà rurale che aveva contraddistinta l’Europa. Per cui, alle ricerche formali per superare la mera rappresentazione della realtà, si affiancò la volontà di creare una nuova arte analitica e universale, che si adattasse alla necessità della “società delle macchine”.
Il nuovo corso interessò anche la Polonia, e la Svevia vi rende omaggio con la mostra Kobro&Strzemiński: New Art in Turbulent Times, dedicata alle due principali figure dell’arte moderna polacca, solitamente poco considerata nell’ambito delle grandi manifestazioni museali. Katarzyna Kobro (1898–1951) nacque a Mosca da padre tedesco e madre russa, formandosi alla locale scuola d’arte, e nel 1917 entrò a far parte del Sindacato degli Artisti, dove conobbe Malevich, Rodchenko, Rozanova, che ebbero profonda influenza nella sua concezione dell’arte. Anche il percorso di Władysław Strzemiński (1893–1952) non fu dissimile: nato a Minsk da una famiglia della nobiltà polacca, nel corso della Grande Guerra fu gravemente ferito nel 1916, perdendo un braccio, una gamba e un occhio. Ovviamente congedato, scelse di frequentare la Scuola d’Arte di Mosca, e a seguito della Rivoluzione d’Ottobre entrò nel Commissariato popolare per l’educazione, dove ebbe modo di avvicinare Malevich e Tatlin. Fu a Mosca che conobbe Kobro, sposata nel 1920 a Smolensk, con rito civile. Ma gli anni Venti lasciarono intendere il vero carattere della Rivoluzione socialista, con le prime epurazioni e i feroci regolamenti di conti fra esponenti del partito comunista, fra i quali sarà Stalin a prevalere. E non differentemente da Hitler dieci anni dopo, ebbe poca simpatia per l’arte non allineata. Rifiutando di dedicarsi all’arte di propaganda, Kobro e Strzemiński si trasferirono a Riga, all’epoca parte del territorio polacco, e a seguito del matrimonio in chiesa anche Kobro ebbe la cittadinanza del marito. Insieme, lavorarono al rinnovamento dell’arte polacca, sulla base dell’esperienza fatta in Russia, per tramite del movimento Praesens, e pur superando, nelle denominazioni, Raggismo e Suprematismo, sia Strzemiński sia Kobro non se ne distaccarono troppo da un punto di vista formale e concettuale. Un’arte ripetitiva, che ha la medesima ritmica di un piano della NEP.
Pittori, ma anche scultori, la loro cifra estetica subiva il fascino dell’architettura, nell’idea di creare un’arte funzionale a creare un sistema analitico di spiegazione della realtà, che servisse da ispirazione per organizzare gli spazi del futuro, dalle abitazioni, agli edifici industriali, alle città. Legno, metallo, vetro, plastica, furono i materiali preferiti dai due artisti, che inaugurarono anche in Polonia la pratica della scultura installativa, che univa la forma, lo spazio e lo spettatore, un po’ come Jean Arp stava facendo in Olanda. L’allargamento degli orizzonti era lo scopo di questo nuovo linguaggio artistico, ma paradossalmente colse il risultato opposto, a causa di un’ottica concettuale assai asfittica. Probabilmente, il limite del Modernismo polacco (ma anche di quello russo), fu l’aver ignorato quanto accadeva nella Germania di Weimar, dove la Neue Sachlichkeit interpretava lo stato d’animo dell’individuo, e pur in un contesto tragico, disperato, di smarrimento e delusione, quella fu un’arte viva, cosa che mancò alle esperienze russa e polacca, e in larga parte a anche a quella olandese. Contestualizzando le opere di Kobro e Strzemiński all’interno del quadro di artistico di riferimento, si comprendono i limiti anche delle esperienze russa e olandese: le opere di Tatlin e Rodchenko, denunciano i medesimi limiti, che tradiscono la chiara origine politica della loro visione artistica.
Il materialismo storico e l’organicismo di Marx, l’individuo esiste in quanto parte di una massa, regolata da ben precise leggi economiche, per tramite delle quali gli unici rapporti fra persone che abbiano importanza per il progresso, sono quelli di produzione. Da qui, in estrema sintesi, la necessità di organizzare la società comunista, che posando le basi per rapporti di produzione egalitari, può affrancare l’individuo dalla schiavitù del lavoro. Fu così soltanto in teoria, ma la suggestione, la speranza, furono comprensibilmente assai profonde, e all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre anche gli ambienti culturali erano impregnati, anche inconsapevolmente, di marxismo. L’estetica passa in secondo piano, perché funzione dell’opera d’arte diventa quella di dar forma alla matematica, all’idea meccanicistica dell’individuo come parte di una massa (proletaria), che da sola diviene il soggetto sociale nevralgico per il funzionamento dell’economia e dello Stato. Tuttavia Kobro e Strzemiński, nel loro ingenuo utopismo, professavano un’arte organicista come metafora di una società fondata sulla non violenza, la solidarietà, la democrazia.
Differente il discorso per Mondriaan, van Doesburg e Taeuber-Arp, anch’essi presenti in mostra, e che da parte loro non ebbero mire politiche nello sviluppare De Stijl. Il loro limite fu quello di limitarsi alle questioni formali della linea e del colore, dando origine a una certa ripetitività della produzione. Non casualmente, l’esperienza del movimento ebbe breve durata, dal 1917 al 1931, ma cambiando nel tempo quasi tutti i suoi membri originari.
A differenza di quanto accadeva, ad esempio, in Germania, in Francia, in Italia, nel Modernismo di stampo olandese e esteuropeo, l’individuo uscì quasi del tutto dall’arte, ritrovandosi suo malgrado osservatore di forme asettiche, ingranaggio di leggi sociali tutto sommato costrittive.
Più ancora di uno spaccato su un momento della storia dell’arte, la mostra aiuta a comprendere quale depotenziamento subisca l’arte quando si fa schiava, più o meno consapevolmente, di teorie politiche. Una dinamica che si verifica purtroppo ancora oggi, perché sui ricorsi storici Marx, e Vico prima di lui, avevano visto giusto.