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La vuotezza di Warhol, specchio di un’epoca. Stoccolma lo celebra dopo 50 anni

Interior from the exhibition Andy Warhol at Moderna Museet 1968 Photo Moderna Museet Interior from the exhibition Andy Warhol at Moderna Museet 1968 Photo Moderna Museet
Andy Warhol
Andy Warhol

Con la mostra ‘WARHOL 1968‘ il re della Pop Art torna a Stoccolma dopo 50 anni. Dal 15 settembre

Cinquanta anni fa, nell’Europa della contestazione, la prima personale di Andy Warhol nel Vecchio Continente ebbe accoglienze contrastate:  da un lato si criticava la sua superficialità, dall’altro se ne apprezzava lo sguardo disilluso con cui raccontava la società dei consumi. Il Moderna Museet di Stoccolma rievoca quell’evento eccezionale che in retrospettiva segnò l’inizio del declino della società occidentale. Fino al 17 febbraio 2019.

Il mito di Andy Warhol arriva in Europa alimentato dalla celebre copertina di The Velvet Underground&Nico, album d’esordio del gruppo fondato da Lou Reed e John Cale, con la celebre banana che si vociferava fosse intrisa di LSD; era anche quello un modo per attirare l’attenzione ed essere sotto i riflettori, anche se la qualità artistica dell’album non avrebbe avuto bisogno di ulteriori spinte.

Per mano di questo creativo nato da un’umile famiglia di origine polacca, l’arte cambiò inesorabilmente il suo volto, presentandosi come un fenomeno legato al mercato e alla pubblicità, dove l’apparenza è più importante della sostanza, dove si crea per le luci del presente e ci si distacca dal concetto di eternità. In estrema sintesi, Warhol semplifica l’arte riducendola a fenomeno di costume capace di dispensare fama e denaro per periodi più o meno lunghi. Ma lo fa perché a suggerirglielo è la stessa società del dopoguerra, nata nel benessere e plasmata dalla pubblicità, omologata su bisogni artificiali creati dalle aziende alimentari, farmaceutiche, automobilistiche, cinematografiche, e via dicendo.

Andy Warhol, Brillo Soap Pads Box , 1968 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts
Andy Warhol, Brillo Soap Pads Box , 1968 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts

Warhol stesso, creando la Factory, diventa un’appendice del sistema consumistico, dispensando “arte” prodotta in serie così come si produce un’automobile o un televisore. Gli Stati Uniti – dove la contestazione alla guerra del Vietnam aveva raggiunto anche caratteri di violenza, dove la sciagurata diffusione della tossicodipendenza tra i “figli dei fiori” fece ben presto naufragare l’utopia che inseguivano, e dove la criminalità urbana aumentò sensibilmente -, avevano già toccato con mano la fallacità degli anni Sessanta, ancora prima del funesto Sessantotto.
E avevano accettato e acclamato Warhol, riconoscendo in lui un “figlio del sistema”, un abile manager di se stesso, efficace nel vendere un prodotto innocuo incanalando menti ed energie in un vicolo cieco che soffocasse qualsiasi velleità veramente rivoluzionaria. Non è una coincidenza che i movimenti pacifisti, e tutti coloro che sognavano una società migliore (ad esempio i poeti Beat), non ebbero niente a che fare con Warhol; il quale, da parte sua, forse nemmeno si accorse dell’incoerenza della sua contestazione di maniera (fatta di cocaina sniffata in un attico di Manhattan o di filmati sessualmente provocatori), e cercava soltanto di rendere l’arte alla portata di tutti.  Ingenuità o abile mossa pubblicitaria? Difficile stimare la proporzione, ma resta il fatto per cui, da allora, il relativismo e l’improvvisazione, supportati da abili campagne pubblicitarie, sono entrati nel mondo dell’arte e della cultura, abbassandone notevolmente il livello.

Andy Warhol , Mao, 1973 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts
Andy Warhol , Mao, 1973 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts

L’arte di Warhol è fatta di istantanee della vita quotidiana, dai detersivi alle zuppe precotte, dai volti degli attori a quelli dei personaggi politici; se con i primi si celebra l’era del consumismo, si raccontano i cambiamenti nello stile di vita popolare, con le celebri icone prodotte in serie si decontestualizza il ruolo del ritratto, e lo si assurge a simbolo di celebrità; falsandone i colori, ripetendo quasi all’infinito il volto, che sia di Marylin Monroe o di Mao Ze Dong.

Si è detto che Warhol fosse un artista politico, in realtà non assunse mai in pubblico una particolare posizione, né la sua produzione artistica ha caratteri repubblicani o democratici. Più esattamente, le sue creazioni sono i tasselli di un racconto sociale, che in parte ha trovato già scritto e in parte ha scritto lui stesso. Pur avendo assai meno talento, ad esempio, di Michelangelo o Picasso, paradossalmente la sua influenza è stata più profonda di quella dei suoi illustri predecessori, perché ha avuto l’intuizione di assecondare il bisogno della massa di semplificazione, e da questa alla superficialità il passo è purtroppo assai breve.

Warhol ha creato un atteggiamento, e attraverso di esso ha probabilmente accelerato quel processo di banalizzazione e serialità dell’esistenza della massa che adesso, con i social network, ha raggiunto un’altra tappa.

All’epoca ancora non si poteva prevedere tutto questo, e in Europa, dove la mostra di Warhol arrivò tra febbraio e marzo, ancora c’era quel clima d’euforia che preparava il Maggio Francese, ma dopo il quale la disillusione sarebbe arrivata inesorabile. Le accoglienze della critica alla “superstar” di Pittsburgh non furono particolarmente entusiastiche. In quei mesi ancora si sognava la “fantasia al potere” – dove i situazionisti parigini vedevano la spiaggia sotto il selciato (opportunamente “saccheggiato” per ricavarne sampietrini da lanciare nelle manifestazioni) -, ma soprattutto erano ancora ben conosciute le basi di una cultura umanistica che si attendeva dagli artisti profondità concettuale e capacità tecnica.

Andy Warhol, Electric Chair, 1967 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts
IAndy Warhol, Electric Chair, 1967 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts

Per cui, le riproduzioni seriali, la superficialità dei soggetti, le patine dai colori alterati, delusero i più; si parlò di superficialità, di mancanza di fantasia, e soltanto Bengt Olvång parlò della “disillusa ricerca della verità” delle opere di Warhol.

Che Warhol fosse disilluso, è vero; che però cercasse la verità, è assai dubbio. La trova semplicemente perché la sua iconografia segue la massa, e di conseguenza è specchio assai ampio della società. Ma non ha nemmeno un po’ della carica emotiva e sociale di Clas Oldenburg, che ancora Olvång riconobbe, con piena ragione, artisticamente superiore a Warhol. Eppure, il nome di Oldenburg è ancora oggi sconosciuto ai più.

Questo dimostra purtroppo che ha avuto ragione Warhol: non importa possedere talento, quanto far credere agli altri che lo si possiede.

Con il suo viscerale uso delle Polaroid, ha precorso l’attuale mania delle fotografie pubblicate sui social network, ha precorso l’ossessione per la continua autopromozione di sé, in nome dei democratici quindici minuti di fama che ognuno, a suo dire, si meriterebbe. Sulla base di quali capacità, è ancora da chiarire. Risiedono forse in questa errata convinzione, le molte storture che la società si trascina da quarant’anni, e che adesso i social network hanno ampliato a dismisura. Anche in Europa, che proprio con il fallimento del Sessantotto si avvicinò ancora più strettamente al modello sociale americano.

Andy Warhol, Marilyn Monroe in Black and White (Twenty-Five Marilyns), 1962 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts
Andy Warhol, Marilyn Monroe in Black and White (Twenty-Five Marilyns), 1962 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts

Non è vuota l’arte di Warhol: è vuota la società che lui racconta, e in questo gli si deve riconoscere (ne fosse o meno consapevole), il grande merito sociologico di aver saputo documentare una tendenza della società. Per questa ragione, la mostra del Moderna Museet rappresenta un fondamentale documento storico-sociale, più ancora che artistico, perché permette di capire con buona precisione quando è cominciato il declino della società occidentale, quando paradossalmente la fine della Seconda Guerra Mondiale avrebbe dovuto rappresentare un’occasione di sviluppo civile e politico.

 

Interior from the exhibition Andy Warhol at Moderna Museet 1968 Photo Moderna Museet
Interior from the exhibition Andy Warhol at Moderna Museet 1968 Photo Moderna Museet

Obiettivi in larga parte mancati, anche se all’apparenza può non sembrare. Il punto focale della mostra, è proprio l’apparenza: di questo è fatto Warhol, che portava una ridicola parrucca per mascherare la sua vera capigliatura. Un dettaglio, certo, eppure sintomatico del personaggio. Nel quale l’individuo medio è stato indotto a identificarsi (così come negli attori, nei cantanti, nei personaggi sportivi), abbagliato dalle luci della ribalta, dallo star system, dall’illusione di possedere soldi non suoi, semplicemente imitando un atteggiamento.

Se in ultima analisi ancora oggi la massa si ricorda della Pop Art di Warhol, e non di quella di Clas Oldenburg, ciò è la prova schiacciante che l’utopia degli anni Sessanta non si è realizzata, e che l’individuo è rimasto schiavo del consumismo, delle apparenze, dalla “notorietà”. Non è una questione politica; è una questione di coscienza, che in troppi casi non è mai nata.

Andy Warhol , Ten-Foot Flowers, 1967 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts
Andy Warhol , Ten-Foot Flowers, 1967 © 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts

WARHOL 1968

15.9 2018 – 17.2 2019
STOCKHOLM
Moderna Museet
Skeppsholmen, Stockholm
Slupskjulsvägen 7-9
Main entrance: Exercisplan 4
www.modernamuseet.se

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