L’albero dei frutti selvatici, il nuovo film di Nuri Bilge Ceylan, regista di C’era una volta in Anatolia e Il regno d’inverno, al cinema dal 4 ottobre
Il cinema di Ceylan è quel che si potrebbe definire un cinema d’élite. Quella che a Milano chiamo la bolla dell’Anteo: signore bene, curiose e con gioielli etnici, e studenti di cinema che fumano tabacco. Proprio durante una proiezione di Winter Sleep un memorabile battibecco tra una signora e un giovinotto indispettito dagli sbuffi e dei risolini di questa, che -poverina- dopo 196 minuti proprio non ce la faceva più a trattenersi. “Lei così ha rovinato la poesia di un film magnifico!”, le urlava lui paonazzo in viso, con gran fatica per la timidezza. Lei se n’è andata sghignazzando con l’amica.
Un cinema per cui si è disposti a litigare, in fin dei conti, è un cinema quanto meno vitale.
Anche se stiamo parlando di un prodotto di nicchia un mercato c’è. Volendo guardare gli incassi Ceylan non avrebbe dovuto più essere distribuito in Italia dopo i primi tentativi.
Il piacere e l’amore (2006), Premio FIPRESCI Cannes 56, distribuito da BIM ha incassato 118.680 € (una cifra ridicola), Le tre scimmie (2008), Premio miglior regia a Cannes 61, distribuito sempre da BIM, arriva a € 154.600. BIM molla allora il colpo e subentra Parthénos.
Con C’era una volta in Anatolia, Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 64, raggiunge (nonostante i suoi 150 minuti) “ben” 341.850 € al box office. Il regno d’inverno – Winter Sleep, Palma d’oro a Cannes 67, ha incassato invece 229 mila € (tra le palme d’oro più scarse al botteghino degli ultimi 15 anni con Dapheen e Lo zio boonmee che si ricorda le vite precedenti). L’anno scorso The Square ha sforato il milione di Euro e quest’anno Un affare di famiglia ha racimolato già 238.705 € solo nel primo weekend di proiezioni (un ottimo esordio).
Ora, a quattro anni dalla Palma d’Oro, Ceylan è tornato a Cannes dove, con L’albero dei frutti selvatici , per la prima volta da tempo immemore non ha conquistato nemmeno un premio. Il film sarà al cinema, sempre con Parthénos, dal 4 ottobre; durata 188 minuti (sì, tre ore).
L’albero dei frutti selvatici è la summa di tutto il cinema di Ceylan e come tale è una nuova grande sfida per la distribuzione e per gli esercenti, che in questi giorni sono in subbuglio per l’avanzata della minaccia streaming (Netflix e il Leone d’Oro a Roma di Alfonso Cuaron + il caso Sulla mia pelle). Per il cinema d’essai, superato a destra e a sinistra da streaming e blockbuster, la sfida sembra sempre più impari. Sinan desidera diventare uno scrittore, di ritorno nel suo villaggio natale in Anatolia, nella provincia di Çanakkale (siamo sullo Stretto dei Dardanelli, dove una volta sorgeva la mitica Troia), si impegna a raccogliere il denaro per la pubblicazione del suo libro, “Il pero selvatico”, ma il confronto con il padre, un insegnante col vizio del gioco, indebitato con chiunque, seminano in lui il seme dell’inquietudine.
Ceylan riflette sul valore e sul significato dell’avere dei debiti con le proprie radici, culturali e famigliari.
L’albero dei frutti selvatici è un film sulla ricerca della propria identità, impostato sulla complessità del conflitto e che si intreccia con l’analisi di un mondo in sospeso tra il vecchio e il nuovo. Uno scontro non solo generazionale (padre e figlio), ma anche tra chi resta e chi se ne vuole andare. “Cosa dice il tuo cuore” chiede Sinan a una ragazza che al contrario di lui ha deciso di restare al paese e di sposarsi con un gioielliere, “È da tanto che il mio cuore non dice più nulla”, le risponde lei. Il mondo legato alla tradizione, al passato, si configura come quello del dovere, mentre il mondo del futuro è quella del sentire, al desiderio. E il desiderio di Sinan è quello di pubblicare il proprio libro, un compendio di riflessioni personali, intime, che delineano un nuovo concetto di identità rurale.
L’emancipazione è un percorso che passa attraverso la negazione delle proprie radici e su questo si focalizza il dualismo del film, che vede contrapposte tra loro la figura dal padre, un uomo che ha perso il rispetto della comunità, e Sinan, figlio che si vergogna di questa figura paterna e che in cuor suo cova la malcelata paura di essere destinato a quella medesima fine, solo e incompreso. Condizione di cui la figura del pero selvatico, albero dalle forme ritorte che cresce solitario, è una chiara metafora. È un discorso vecchio (I pugni in tasca) che Ceylan, attingendo a tutta la magniloquenza del suo fare cinema, sa far rifiorire in una serie di tableau di mesta sobrietà.
L’albero dei frutti selvatici è un film costruito su lunghi dialoghi inquadrati in altrettanto lunghi piani sequenza, e ogni dialogo prende la deriva della disputa filosofica (in uno di questi si passa dal Corano alla natura dei farmaci generici nel tentativo di cercare una spiegazione al valore e al significato della religione): “con occhi e menti vediamo in modo diverso stessi orizzonti”, recita a un certo punto uno dei personaggi del film, riassumendo con estrema sintesi e lucidità uno dei pilastri della poetica del regista turco.